Archivi del mese: dicembre 2012

Insegnavan la modestia alle fanciulle

…quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia.

Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Capitolo I

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Il dolore di Laerte per il figlio.

A queste parole, una nera nube di dolore lo coprì tutto intorno.

Con entrambe le mani raccolse polvere riarsa,

e se le versava sul capo canuto, con fitti lamenti.

Allora a Ulisse si turbò l’animo, e per le narici gli salì

un impulso pungente di pianto, il caro padre guardando.

Odissea, XXIV, 315.

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Impressioni ricorrenti dal ponte sulla Neva di un neo assassino.

Egli strinse la moneta nella mano, fece una decina di passi e si volse con la faccia verso la Neva, in direzione del castello. In cielo non c’era neanche una nuvoletta, l’acqua era quasi azzurra, cosa che nella Neva capita di rado. La cupola della cattedrale, che da nessun posto si vede così bene come da lì, sul ponte, a una ventina di passi dalla cappella, splendeva tutta, e attraverso l’aria limpida si distingueva nettamente ogni suo minimo dettaglio. Il bruciore della frustata s’era calmato e Raskòlnikov non pensava più al colpo ricevuto; un pensiero inquietante e non del tutto limpido lo assorbiva adesso per intero. Indugiò a lungo guardando lontano; quel posto gli era particolarmente familiare. Quando frequentava l’università, gli capitava – perlopiù mentre stava rincasando -, e forse gli era capitato un centinaio di volte, di fermarsi proprio in quel posto, e di contemplare quella veduta stupenda, e ogni volta gli era capitato anche di essere sorpreso da un’impressione vaga e insondabile. Quella magnifica veduta suscitava sempre in lui un senso di inesplicabile freddezza; in quella veduta stupenda egli avvertiva la presenza di uno spirito muto e sordo…Ogni volta si meravigliava di quell’impressione cupa e arcana, e ogni volta rimandava al futuro la soluzione dell’enigma, non avendo fiducia in sè stesso. In quel momento, ricordando di colpo le sue domande e perplessità di un tempo, gli parve di non essersene rammentato per puro caso. Gli sembrò un fatto singolare e sbalorditivo già l’essersi fermato proprio in quel posto, come in passato, quasi avesse potuto immaginare che le cose, ora, gli sarebbero apparse nello stesso modo di prima, e che si sarebbe interessato agli stessi argomenti e alle stesse visioni di cui s’era interessato… ancora così di recente. Gli venne quasi da ridere, e insieme si sentì stringere il petto fino al dolore… Come in una specie di profondità, appena visibile a picco sotto di lui, gli apparvero tutto quel passato e tutti i pensieri d’un tempo, i problemi, gli argomenti e le impressioni d’un tempo, e quella veduta, e sè stesso, e tutto, tutto… Gli sembrava di volare da qualche parte molto in alto, e tutto si dileguava ai suoi occhi… Un involontario movimento della mano gli fece sentire, a un tratto, nel pugno chiuso, la moneta da venti coperche. Disserrò la mano, guardò fisso la monetina, prese lo slancio e la gettò nell’acqua; poi si voltò e andò a casa. Gli parve in quell’istante di essersi tagliato via con le sue stesse mani, con un colpo di forbici, da tutto e da tutti.

F.M. Dostoevskij – Delitto e castigo – pag. 140.

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Ritorno alla propria Anima.

Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni felicità umana. Cessò dunque in me il desiderio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo di orrore. La visione dell’alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: “Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo…Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui. Ho scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c’è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta, mi ha condotto a te anima mia (…) Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. Dammi la mano, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a te. Diciamo grazie alla vita perchè ho vissuto, per tutte le ore serene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, il mio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andare ed elevarmi alla mia solitudine”.

C.G.Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri, pag 15

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L’amore di Petr Petròvic.

Dùnja, poi, gli era assolutamente necessaria; rinunziarvi era inconcepibile. Già da molto, da parecchi anni, sognava con delizia il matrimonio, ma aveva continuato ad accumulare denaro e ad attendere. S’inebriava, nel suo intimo, all’idea che una fanciulla virtuosa e povera (a tutti i costi povera), assai giovane, assai graziosa, di nobili sentimenti e istruita, che avesse molta paura della vita per aver conosciuto moltissime disgrazie, gli si prosternasse dinanzi, considerandolo per tutta la vita come la sua salvezza, lo venerasse, gli si sottomettesse, e ammirasse lui e lui solo. Quante scene, quanti episodi squisiti non si era creato nell’immaginazione su quell’argomento seducente e gioioso, riposandosi in santa pace dei suoi affari! Ed ecco che il sogno di tanti anni stava per realizzarsi: la bellezza e l’istruzione di Avdòtja Romànovna lo avevano colpito; la difficile situazione di lei lo aveva stuzzicato oltre ogni dire. Gli si presentava un’occasione che andava persino al di là dei suoi sogni: una fanciulla altera, di gran carattere, virtuosa, superiore a lui per educazione e sviluppo spirituale (egli lo sentiva) – un essere simile gli sarebbe stato servilmente grato, per tutta la vita, del suo grande gesto, si sarebbe annichilito devotamente dinanzi a lui, permettendogli di dominare nella maniera più incontrastata!… Neanche a farlo apposta; proprio poco prima, dopo molte considerazioni e attese, aveva finalmente deciso di cambiare carriera e di entrare in un giro di attività più vasto, passando a poco a poco in una sfera sociale più elevata, alla quale già da un pezzo pensava con voluttà… In una parola, s’era deciso a tentare l’esperienza di Pietroburgo. Sapeva che grazie una donna può esserci “molto ma molto” da guadagnare. Il fascino di una donna incantevole, virtuosa e istruita poteva apianargli mirabilmente il cammino, attrarre la gente verso di lui, creargli un’aureola…

F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo – pag. 368

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L’orgoglio dei poveri.

Sarebbe difficile indicare con esattezza le ragioni per cui nella mente sconvolta di Katerìna Ivànovna era nata l’idea di quell’assurda commemorazione. Effettivamente, in quel modo se ne erano andati quasi dieci rubli, dei venti e più ricevuti da Raskòlnikov espressamente per il funerale di Marmelàdov. Forse, Katerìna Ivànovna considerava suo dovere verso il defunto onorarne la memoria “come si deve”, affinché tutti gli inquilini, e in particolare Amàlija Ivànovn, sapessero che egli era stato “non solo nient’affatto peggiore di loro, ma forse anche molto migliore”, e che nessuno di loro aveva il diritto di “fare tanto il grande” davanti a lui. Forse, in questo giocava più di tutto quello speciale orgoglio dei poveri per cui, in certe cerimonie sociali obbligatorie per chiunque nel nostro modo di vivere, molti poveracci si spellano e spendono gli ultimi quattro soldi che hanno risparmiato, allo scopo di “non essere da meno degli altri” e non essere “criticati”. E’ anche assai probabile che Katerìna Ivànovna desiderasse proprio in quell’occasione, proprio in quel momento in cui le sembrava di essere stata abbandonata da tutti a questo mondo, dimostrare a tutti quegli “inquilini cattivi e insignificanti” che lei non soltanto “sapeva vivere e sapeva ricevere”, ma che per di più era stata educata per una vita di tutt’altro genere, nella casa “di un colonnello, una casa nobile e perfino aristocratica”, dove non l’avevano certo abituata a spazzare lei stessa i pavimenti e a lavare di notte gli indumenti cenciosi dei bambini. Di questi parossismi di orgoglio e vanità cadono spesso preda le persone più povere e umiliate, per le quali, talvolta, diventano una bisogno assillante ed irresistibile.

F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo – pag. 451

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Il naufrago, la servitù gratificante e l’evoluzione sociale.

La nozione di relatività dei giudizi porta all’angoscia, è vero. È più semplice avere a nostra disposizione, quando si deve agire, una strategia già pronta, o le istruzioni per l’uso. Le nostra società che esaltano tanto spesso, almeno a parole, la responsabilità, si industriano di non lasciarne affatto all’individuo, per paura che agisca in modo non conforme alla struttura gerarchica di dominanza. E il bambino, per sfuggire all’angoscia, per rassicurarsi, cerca l’autorità delle regole imposte dai genitori. Da adulto farà lo stesso con l’autorità imposta dalla sociocultura in cui è inserito. Si aggrapperà ai giudizi di valore di un gruppo sociale, come un naufrago si aggrappa disperatamente alla ciambella di salvataggio.
Un’educazione relativista non cercherebbe di eludere la sociocultura, ma le restituirebbe la sua giusta dimensione: quella di uno modo imperfetto, temporaneo, di vivere in società. Lascerebbe all’immaginazione la possibilità di trovare altri modi, e nella combinatoria concettuale che potrebbe risultarne l’evoluzione delle strutture sociali potrebbe forse accelerarsi, come la combinatoria genetica rende possibile l’evoluzione di una specie. Ma questa evoluzione sociale è appunto il terrore del conservatorismo, perché è il fermento capace di rimettere in discussione i vantaggi acquisiti. È meglio allora procurare al bambino una “buona” educazione capace innanzitutto di permettergli una rispettabile “carriera” professionale. Gli insegnano a “servire”, in altri termini gli insegnano la servitù nei confronti delle strutture gerarchiche di dominanza. Gli fanno credere che agisce per il bene della comunità, una comunità istituzionalizzata gerarchicamente che lo ricompensa di ogni sforzo compiuto verso la servitù all’istituzione. La servitù diventa allora gratificante. L’individuo è convinto della propria dedizione, del proprio altruismo mentre agisce solo per il proprio appagamento, un appagamento però deformato dal fatto di aver assimilato i dettami della sociocultura.

H. Laborit, Elogio della fuga – pag. 57

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