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Nella luce di Epicuro

Tu scorgesti per primo in questo buio profondo 
quella traccia di luce che indicava la strada: 
voglio seguirti ancora, grande gloria dei Greci, 
procedendo nell’orma che il tuo piede ha lasciato. 
Io non posso emularti, ma l’amore mi spinge 
solamente a imitarti: come vuoi che un rondone 
si paragoni ad un cigno? E potrebbe un capretto 
dalle zampe tremanti atteggiarsi a destriero? 
Tu ci hai anche lasciato, con i tuoi insegnamenti, 
molti saggi precetti: ora io voglio volare 
sopra i tuoi scritti, Maestro, come fanno le api 
sui bei fiori dei prati, per estrarne una scienza 
che é preziosa per noi e che credo sia eterna. 
Da quando, per il tuo genio, noi potemmo scoprire 
la natura reale di ogni cosa che esiste 
il terrore è svanito, le mura sono crollate, 
noi possiamo scrutare questo immenso universo. 
Vediamo anche gli déi, nelle loro dimore 
che resistono al vento e le nubi non scuotono 
con i loro piovaschi, né la gelida neve 
le ricopre di bianco: un cielo sempre sereno 
le sovrasta e rallegra con un roseo chiarore. 
La natura provvede a tutto quello che occorre, 
niente riesce a turbare quella pace divina: 
lì non ci si tormenta per il nero Acheronte 
né la terra impedisce di guardare al di sotto 
ciò che vive e si compie nello spazio infinito. 
Tutto questo mi dona una gioia profonda 
e dolcemente io tremo quando, grazie al tuo genio, 
posso anch’io riconoscere la natura di tutto. 

Lucrezio, de rerum natura, III,1

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Sui nostri talenti

La nostra più grande paura non è nel sentirci inadeguati. La nostra più profonda paura è nel sentirci potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra oscurità, che ci spaventa. Ognuno di noi si chiede: “Chi sono io per essere brillante, affascinante, ricco di talenti, meraviglioso?”. In realtà, cosa sei tu per non esserlo? Siamo figli di Dio, il nostro schermirci non serve al mondo. Non c’è nulla di illuminante nello sminuire se stessi: facciamo semmai sentire gli altri insicuri al nostro fianco. Siamo nati per splendere e manifestare la gloria di Dio che è dentro di noi, non solo in alcuni di noi, è in ognuno di noi e quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente regaliamo agli altri la possibilità di fare altrettanto. Quando ci liberiamo dalla nostra paura, la nostra presenza libera chi ci sta accanto. 

N. Mandela, da un discorso del 1994.

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Preghiera

Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.

G. Ungaretti, da Roma occupata

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Guerra

Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
Ora che notte già turbata scorre;
Ora che persistente
E come a stento erotto dalla pietra
Un gemito d’agnelli si propaga
Smarrito per le strade esterrefatte;
Che di male l’attesa senza requie,
Il peggiore dei mali,
Che l’attesa di male imprevedibile
Intralcia animo e passi;
Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli
Agghiacciano le case tane incerte;
Ora che scorre notte già straziata,
Che ogni attimo spariscono di schianto
O temono l’offesa tanti segni
Giunti, quasi divine forme, a splendere
Per ascensione di millenni umani; Ora che già sconvolta scorre notte,
E quanto un uomo può patire imparo;
Ora ora, mentre schiavo
Il mondo da abissale pena soffoca;
Ora che insopportabile il tormento
Sì sfrena tra i fratelli in fila a morte;
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
«Cristo, pensoso palpito,
Perché la Tua bontà
S’è tanto allontanata?»

G. Ungaretti, da Roma occupata

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Soldati

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

G. Ungaretti, Soldati

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Legami

Per questa ragione la vera libertà non è — come pensa la nevrosi — evitare il legame con l’Altro affermando la nostra autonomia, ma è saper riconoscere la nostra insufficienza e la nostra dipendenza dall’Altro. Non consiste nel vivere senza l’Altro perché questo è il sogno profondamente narcisistico e perverso di ogni nevrotico. Piuttosto la vera libertà implica il legame con l’Altro come ciò che apre la mio vita all’incognita ingovernabile del desiderio. Invocare la libertà come realizzazione di se stessi in alternativa a ogni legame traduce invece solo un fantasma di autoconsistenza totalmente sterile. Cancellare la dipendenza simbolica dall’Altro non rende la vita indipendente ma la mutila, la arrocca su se stessa, la riduce a una fortezza vuota. È quello che molti nevrotici non vogliono vedere: restare soli non è — come spesso lamentano — una sofferenza, ma il loro modo inconscio di scansare il pericolo angosciante dell’esposizione assoluta al desiderio dell’Altro che ogni incontro d’amore impone.

M. Recalcati, Non è più come prima, 116

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Convivere col pericolo

Per chi non ha idea di come fosse la Terra del Fuoco a quell’epoca, è difficile immaginare il livello di tensione nervosa che anche in tempo di pace configurava lo stato mentale di un indiano, vissuto sin dall’infanzia nel ruolo di cacciatore e di preda. La loro inquietudine era tradita dall’attenzione con cui esaminavano qualsiasi traccia che assomigliasse a un’impronta umana; dalla cautela con cui restavano nell’oscurità del bosco ed evitavano di attraversare gli spazi aperti, dove le ombre lunghe proiettate dal sole basso potevano essere viste da molto lontano; dall’ansia con cui osservavano uno stormo di uccelli levarsi in volo o un guanaco correre apparentemente allarmato, e si interrogavano sulle possibili cause. Passavano ore e ore sdraiati immobili su qualche altura a scrutare intensamente immensi tratti di foresta e di orizzonti azzurri, in cerca della minima variazione di colore che segnalasse il sollevarsi di un filo di fumo da un accampamento nei boschi. E se veniva notato qualcosa del genere, seguivano serie discussioni sulla possibile identità degli accampati e sui motivi della loro presenza in quel luogo. Sembrava anche che con l’abitudine avessero sviluppato un sesto senso che li induceva ad accamparsi sempre in posti che offrissero buone possibilità di fuga o di difesa, nel caso di un attacco inatteso.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, 408

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La scomparsa dei miti

Il folletto Yohsi era di una pasta meno eterea. Somigliava a un uomo e in casa sua teneva donne e bambini. Era trasparente ma non invisibile e passando sulla neve più soffice poteva lasciare – ma non sempre – una qualche sorta di impronta. Spezzava e raccoglieva rami secchi e pezzi di legna da ardere a cui non sapeva dare fuoco. Il più delle volte appariva ai cacciatori solitari che passavano la notte accanto al falò. Quando il cacciatore dormiva, Yohsi arrivava per agitare le fiamme con il suo lungo dito medio. Quando i ciocchi ardenti si smorzavano, il cacciatore si destava di soprassalto, per trovarsi Yohsi seduto di fronte. Il folletto poteva volar via o svanire all’istante, ma anche restare li a lungo, seminando il terrore in chi gli sedeva dirimpetto. Circolavano storie di nomadi solitari trovati morti e orribilmente mutilati, evidentemente da Yohsi, nel posto che avevano scelto per passare la notte. Una volta mi trovavo in viaggio con due ona. Dopo essere scesi dai monti sul finire del giorno, ci eravamo accampati nella boscaglia vicino al livello superiore della vegetazione, quando un secco spezzarsi di rami nell’aria gelida avvisò i miei compagni della presenza di Yohsi. Erano evidentemente agitati e quando commisi la sciocchezza di farmi beffe della loro superstizione, uno dei due mi rimproverò dicendo che se fossi stato da solo e mi fossi trovato con Yohsi seduto davanti dall’altra parte del fuoco, non sarei stato cosi coraggioso. Per qualche ignota ragione il numero degli yohsi aveva subito un forte calo prima ancora dell’arrivo dell’uomo bianco, e ora si trovavano solo nelle zone piú squallide e inaccessibili del paese.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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Le ombre degli Ona e la paura della fotografia

È difficile descrivere il concetto che gli ona avevano del mehn. Sebbene io non abbia mai sentito usare questo termine nel senso di qualcosa di vivo o di qualcosa di immaginario, avrebbe potuto facilmente racchiudere entrambi i significati. Era sia una chimera sia un’entità – o meglio, un numero infinito di entità. Mehn poteva essere l’ombra di un uomo stagliata sul terreno, o il suo riflesso in un lago o in uno specchio; oppure un qualcosa di vago che si librava tra gli alberi della foresta, leggero come il piú tenue degli anelli di fumo; o come quelle ombre impalpabili che si vedono nei giorni senza sole, o come un tremore appena percepibile. Il mehn poteva far sorgere la premonizione di un pericolo o avvisare di un’imminente sciagura. Forse è capitato anche a qualche uomo civilizzato, e in particolare a chi andava a caccia da solo, di avvertire la presenza del mehn, anche se poi si sarà ben guardato dal raccontarlo in giro, per paura di sentirsi dare del povero matto. Quando un ona moriva, spirava anche il suo mehn. Nessuno ha mai chiesto o immaginato dove fosse andato a finire, non piú di quanto si chiedessero o immaginassero che cosa fosse successo all’aria dell’ultimo respiro. Il mehn di un uomo poteva abbandonarlo ed entrare nella sua ombra o nel suo riflesso sull’acqua o sul vetro, ma nessuno poteva portarlo via; ritornava da lui e l’uomo non perdeva niente. Quando nella terra degli ona apparvero le prime macchine fotografiche, i nativi nei primi tempi non gradivano essere fotografati. La loro obiezione era che alcuni dei loro mehn potevano essere portati via e, una volta trasferiti sulla carta, restarvi prigionieri per sempre.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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L’abbandono

Il traumatismo dell’abbandono, come la clinica psicoanalitica mostra, riaccende traumatismi più antichi, primari, riporta il soggetto alle sue ferite più lontane nel tempo. Il trauma non invade solo il corpo ma innanzitutto la vita psichica. È un evento che coinvolge la rottura degli argini della nostra identità, che infrange la certezza sulla quale poggia la nostra vita.

M. Recalcati, Non è più come prima, 3

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