Archivi tag: matrimonio

Sposi felici

Nella oscura savana i fuochi dell’accampamento brillano. Attorno al fuoco, unica protezione contro il freddo che scende, e dietro il fragile paravento di palme e di rami frettolosamente piantato dalla parte del vento o della pioggia, vicino alle gerle piene di povere cose che costituiscono tutti i loro beni terreni, coricati sulla nuda terra e insidiati da altre bande ugualmente ostili e timorose, gli sposi, strettamente allacciati, si considerano l’un l’altro sostegno, conforto, unico soccorso contro le difficoltà quotidiane e la trasognata malinconia che di tanto in tanto invade l’anima nambikwara. Il visitatore che per la prima volta si accampa nella boscaglia con gli indiani, è preso dall’angoscia e dalla pietà di fronte allo spettacolo di questa umanità così totalmente indifesa; schiacciata, sembra, contro la superficie di una terra ostile da qualche implacabile cataclisma, nuda e rabbrividente accanto a fuochi vacillanti. Egli circola a tastoni fra la sterpaglia, evitando di urtare una mano, un braccio, un torso di cui s’indovinano i caldi riflessi al chiarore dei fuochi. Ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa. Le coppie si stringono nella nostalgia di una unità perduta; le carezze non s’interrompono al passaggio dello straniero. S’indovina in tutti una immensa gentilezza, una profonda indifferenza, una ingenua e deliziosa soddisfazione animale, e, mettendo insieme tutti questi sentimenti diversi, qualche cosa che somiglia all’espressione più commovente della tenerezza umana.

C. Lévi-Strauss, tristi tropici, 245

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

Inseguendo una moglie fuggita

Avanzammo con cautela, non perché la pista fosse difficile da seguire, ma per un’altra ragione. Dopo un centinaio di metri, Halimink si fermò e mi fece un cenno. In un piccolo fosso, con il suo fagotto sistemato sotto il capo, giaceva la piú giovane delle signore Halimink, assopita in un sonno profondo. Il mio amico, senza fare il minimo rumore, si sedette su un tronco vicino a sua moglie, mentre io, per non essere di imbarazzo a lui o a lei, rimasi indietro, fingendo di seguire con interesse i movimenti degli uccellini della foresta da poco arrivati a passare l’estate con noi. Aspettavo di sentire esplodere le recriminazioni di Halimink, seguite dalle urla indignate o dal pianto avvilito di Akukeyohn, ma nessun suono del genere raggiunse le mie orecchie. Sentii invece la sonora risata di Halimink, una risata che svegliò sua moglie e che mi indusse ad avvicinarmi per scoprire cosa lo divertiva. In risposta al mio sguardo interrogativo disse: – Stavo pensando che se tu avessi una moglie e lei scappasse via, non saresti mai capace di ritrovarla. E così, nonostante tutto, Akukeyohn evitò le percosse.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XXXIII

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

Il sesso debole

Anche se chi prendeva l’iniziativa era sempre l’uomo, le donne ona, malgrado l’apparente assoggettamento, avevano i propri diritti e le proprie tradizioni. Per esempio, si riteneva sconveniente che una donna appena sposata, giovane o matura che fosse, si concedesse troppo facilmente. Al contrario, capitava di frequente che opponesse una discreta resistenza e che lo sposo, quando tornava a mostrarsi in giro, avesse il volto graffiato e magari anche un occhio nero. Una volta, ricordo, un uomo venne a chiedermi di curargli un gran brutto morso che la sua sposa, una donna forte, determinata e di notevole esperienza, gli aveva dato sull’avambraccio.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XXXVIII

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

L’intruso

E il marito Deàn, mi soffermo su di lui che non è soltanto serio ma anche un po’ a disagio con il suo viso lungo e strano, come se fosse capitato in una festa dei vicini degli amici, o in una cerimonia che non lo riguarda perché è tutta femminile (i matrimoni sono delle donne, non della sposa ma di tutte le donne presenti), un intruso necessario ma in fin dei conti soltanto decorativo, di cui in realtà si può fare a meno in ogni momento tranne che davanti all’altare, durante tutta la festa che magari si protrarrà tutta la notte per la sua disperazione e per le sue gelosie e per la sua solitudine e per il suo rimorso, ben sapendo che tornerà a essere necessario – figura obbligata – quando tutti andranno via o saranno lui e la sposa ad andare via e lei lo farà guardando indietro e a malincuore, negli occhi dipinta la notte scura.

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me, pag. 38

2 commenti

Archiviato in Letteratura

Echi di una tragedia

Tom Merritt
Cominciai a sospettare qualcosa —
era sempre cosi calma e assente.
E un giorno sentii sbattere la porta di dietro,
mentre entravo per quella davanti, e lo vidi sgusciare
dall’affumicatoio in cortile,
e attraversare a tutta corsa il campo.
Decisi di ucciderlo a vista.
Ma quel giorno, che passavo dal Ponte
senza un bastone né una pietra a portata,
all’improvviso me lo vidi innanzi
atterrito, coi conigli in pugno
e non seppi dir altro che « No, non sparare »
mentre mirava e mi sparò nel cuore.

La signora Merritt
Silenziosa davanti ai giurati,
senza rispondere al giudice quando mi chiese
se avevo qualcosa da dire contro la sentenza,
solo crollando la testa.
Che cosa potevo dire a gente che credeva
che una donna di trentacinque anni sia colpevole
quando l’amante di diciannove le uccide il marito?
Tante volte gli avevo ripetuto:
«Vattene, Elmer, va’ lontano,
ti ho fatto perdere la testa donandomi a te;
tu farai qualcosa di orribile ».
E proprio come temevo, egli uccise mio marito;
davanti a Dio, non sapevo nulla!
Silenziosa per trent’anni in prigione!
E i cancelli di ferro di Joliet
si aprirono quando le guardie mute e grige
mi portarono fuori nella bara.

Edgar Karr
Che cosa se non l’amore di Dio può avere addolcito
e indotto al perdono la gente di Spoon River
verso di me che avevo violato il letto di Merritt
e lui l’avevo assassinato?
Oh, cuori benevoli che mi accoglieste,
quand’ebbi scontato i miei quattordici anni!
Oh, mani sollecite che mi accoglieste nella Chiesa,
e ascoltaste piangendo la mia confessione pentita,
quando presi il Sacramento del pane e del vino!
Pentitevi, voi che vivete, e state in pace con Gesú.

E. Lee-Masters, da Antologia di Spoon River

Lascia un commento

Archiviato in Poesia

Ri-morsi

La seccatura è che in quel capitolo non vi è nessuna traccia di conversione esistenziale; nessuna traccia della mia, della nostra scoperta dell’amore, né della nostra storia. Il mio giuramento resta formale. Non me ne faccio carico, né lo concretizzo. Al contrario, cerco inutilmente di giustificarlo in nome di principi universali, come se me ne vergognassi. Ho perfino la lucidità di notare: «Non è evidente che parlavo di Kay come di una debolezza e con un tono di scusa, come se bisognasse scusarsi di vivere ?».
Che cos’è dunque che mi motiva in questo capitolo, come d’altronde in tutto il libro? Perchè parlo di te con una specie di disinvolta condiscendenza? Perché, nel poco spazio che ti dedico vieni sfigurata, umiliata? E perché i frammenti che alludono alla nostra storia s’intersecano con quelli di un’altra storia che è quella di una sconfitta e di una rottura deliberata che mi compiaccio di analizzare a lungo? Mi sono posto queste domande rileggendomi con costernazione. Ciò che mi motiva, a tutta prima, è evidentemente il bisogno ossessivo di elevarmi al di sopra di ciò che vivo, sento e penso, per teorizzarlo, intellettualizzarlo, essere puro spirito trasparente.

A. Gorz, Lettera a D., pag. 57

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

L’amore secondo Meursault

La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha domandato se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente, e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla. « Perché sposarmi, allora? ›› mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che me lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle di sí. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto: « No ››. È rimasta zitta un momento e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato: voleva soltanto sapere se avrei accettato la stessa proposta se mi fosse venuta da un’altra donna cui fossi legato nello stesso modo.
Io ho detto: « Naturalmente ››. Allora si è domandata se lei mi amava, e io, su questo punto, non potevo saperne nulla. Dopo un altro istante di silenzio, ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione. Siccome io tacevo, non avendo niente da dirle, mi ha preso il braccio sorridendo e ha detto che voleva sposarmi. Io ho risposto che l’avremmo fatto appena lei avesse voluto.

A. Camus, Lo straniero, cap. V

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

L’amore secondo Édith

«Vuoi ancora vedermi? » mormorò.
« Sì » disse Jean-Luc sottovoce.
Allora lei lo condusse fuori dalla stanza. Restarono in piedi sui gradini della scala buia: Édith aveva richiuso la
porta alle loro spalle senza far rumore.
« Naturalmente. » disse « con lui… Bertrand… non è amore. »
«Allora cos’è?… Denaro? »
Stavano stretti l’uno all’altro, trasalendo a ogni rumore, parlando quasi bocca a bocca:
« Oh, vattene!… Va’ Via!… Ho paura… »
« Di Bolchère? ».
«No!… Di mio padre, soprattutto… Se sapesse, se sospettasse…»
« Oh, me ne infischio di tuo padre!… Voglio sapere!… Quel Bolchère! Ma tu sei ricca di tuo, no?… Non hai bisogno di lui… ».
« Non puoi capire… Bisogna avere una certa posizione sociale, un certo tenore di vita… E quindi prendersi per marito qualcuno di già realizzato, di già arrivato, e non un ragazzino come te, con tutta la vita ancora da costruire! Io non ho mica voglia di aspettare »

I. Némirovsky, La preda, parte 1, 6

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

Quando la miseria entra dalla porta…

Non avrebbe mai dimenticato, pensava Jean-Luc, che con lui aveva conosciuto la povertà. Certe donne possono perdonare la crudeltà, il tradimento, ma le difficoltà materiali, quelle devono essere riservate esclusivamente all’uomo.

I. Némirovsky, La preda, parte 2,10

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

Le vestali dell’onore familiare

Malvina aveva giurato a se stessa che mai, mai, mai e poi mai, si sarebbe lasciata imprigionare. Chiacchieravano, nel giardino del collegio, ragazze giovani ed allegre, figlie di padri ricchi, mentre i loro fratelli stavano a Bahia, nei ginnasi, all’università. Con diritto di stipendio, a spendere denaro, a fare tutto. Loro, avevano soltanto quel breve tempo dell’adolescenza. Le feste al Club Progresso con fugaci amori senza conseguenza, bigliettini furtivamente scambiati, timidi baci in qualche cinema, a volte più profondi nei portoni di casa. Un bel giorno, arrivava il padre con un amico, finivano gli amori, cominciava il fidanzamento. Se non avessero voluto, i padri le avrebbero obbligate. Soltanto qualcuna riusciva a sposare l’innamorato, se questi fosse riuscito simpatico al padre. Ma la situazione non cambiava in nulla. Marito scelto dal padre, fidanzato mandato dal destino, era la stessa cosa. Dopo il matrimonio non esisteva più differenza. Diventava il padrone, il signore, colui che detta legge, che deve essere obbedito. Per loro ogni diritto, per le mogli soltanto doveri e rispetto. Vestali dell’onore familiare, del nome del marito, responsabili della casa, dei figli.
Maggiore d’età, più avanti negli studi, Clara era diventata l’amica intima di Malvina. Ridevano insieme mentre bisbigliavano nel cortile del collegio. Non esisteva ragazza più allegra, più carica di vitalità, dal carattere più solido ed onesto, appassionata ballerina di tango, piena di sogni. Appassionata e romantica, ribelle e seria. S’era sposata per amore, così aveva almeno creduto. Il marito non era una fazendeiro dalla mentalità arretrata. Era un avvocato, un laureato, recitava versi. Ma fu la stessa cosa. Cos’era accaduto mai con Clara? Dov’era andata finire? Dove aveva soffocato l’allegria, la giovinezza, i sogni? Andava in chiesa, pensava alla casa, ai figli. Non metteva più il rossetto, il marito l’aveva proibito.
Così era stato sempre, così avrebbe continuato ad essere: come se la vita non avesse una evoluzione, come se nulla potesse mai trasformarsi, come se la stessa città fosse rimasta ancora ai tempi del passato.

J. Amado, Gabriella garofano e cannella, p. 305

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura