Archivi del mese: dicembre 2013

Poesie

Nella gioia del volo l’uccello,
qua e là, nel vuoto,
va scrivendo parole
senza alfabeto.
Quando la mente vola
si risveglia la mia voce,
la penna descrive
la gioia delle ali.

R. Tagore, da Sfulingo

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Perpetuo

Non ci fu mai più inizio di quanto ce n’è ora,
Né più gioventù o vecchiaia di quanta ce n’è ora.
Né vi sarà più perfezione di quanta ce n’è ora.
Né più cielo o più inferno di quanto ce n’è ora.

W. Whitman, da Canto di me Stesso, 3

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Riduzionismo

La scienza cerca di capire e di spiegarsi il mondo facendolo a pezzi, misurandolo, pesandolo, osservandolo e possibilmente riproducendolo. Come può allora cogliere il fuoco che è in un pezzo di legno? L’albero che è in un seme, la gioia o la tristezza che covano nel petto di tutti?

T. Terzani, Un altro giro di giostra, cap. 3

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Uomini e animali

Una differenza fondamentale tra la nostra cultura e la cultura eschimese, che in certe situazioni si può percepire anche oggi, è che noi ci siamo irrevocabilmente distaccati dal mondo occupato dagli animali. Abbiamo trasformato in oggetti tutti gli animali e gli elementi del mondo naturale. Li manipoliamo affinché servano gli scopi complicati del nostro destino. Gli eschimesi non afferrano facilmente questa separazione, e faticano a immaginarsi interamente rimossi dal mondo degli animali. Per molti di loro compiere questa separazione è isolarsi dalla luce o dall’acqua. È difficile immaginare come si possa riuscirci.
Una seconda differenza è che, siccome abbiamo oggettificato gli animali, possiamo trattarli in modo impersonale. Ciò riguarda non soltanto gli animali che vivono intorno a noi ma anche quelli che vivono in terre lontane. Per gli eschimesi, quasi tutte le relazioni con gli animali sono locali e personali. Gli animali che un individuo incontra fanno parte della sua comunità; e ha certi obblighi verso di loro. Per gli eschimesi uno degli aspetti più frastornanti della cultura occidentale è la spersonalizzazione dei rapporti con i membri umani e animali delle nostre comunità. E questo è complicato, anziché semplificato, dai loro tentativi di imparare ad oggettificare gli animali.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 204.

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L’arte di ascoltare

Ora i gusti sono mutati, si è perduta l’arte dell’ascoltare, in Europa. Gli africani la posseggono ancora perché non sanno leggere. Appena principi a dire: “un tale camminava nella pianura e incontrò un altro”, subito pendono dalle tue labbra, subito la loro fantasia insegue con slancio la pista sconosciuta dei due uomini sulla pianura. Ma i bianchi non sono più capaci di prestar orecchio a un racconto, nemmeno se sentono che è loro dovere. Divengono irrequieti, si ricordano di mille incombenze da sbrigare proprio in quel momento; se, addirittura, non si addormentano. Le stesse persone, invece, son capaci di cercare qualcosa da leggere e di trascorrere tutta la sera immerse nella lettura di un qualsiasi pezzo di carta stampata. Riescono persino a leggere i discorsi. È l’abitudine di cogliere le cose solo con gli occhi.

K. Blixen, La mia Africa, parte III, cap. 8

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Ebbrezza di Andreas

Più per imbarazzo che per curiosità aprì la porta della camera, uscì sul corridoio e vi scorse una giovane donna che in quel momento usciva dalla sua camera, proprio come lui. Era bella e giovane, così gli parve. Gli ricordava la commessa del negozio dove aveva acquistato il portafoglio, e un po’ anche Caroline, così che si inchinò lievemente davanti a lei e la salutò, e poiché quella gli rispose con un cenno del capo, si fece animo e le disse senza esitare: «Lei è bella».

J. Roth, La leggenda del santo bevitore, X

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Maschere nella tempesta

Vegetariano, non resistente, libero pensatore, cristiano in etica,
oratore dedito al falso ritmo di Ingersoll;
carnivoro, vendicatore, credente e pagano;
casto, libertino, mutevole, traditore, vano,
orgoglioso, dell’orgoglio che fa considerare la lotta una cosa da ridere;
col cuore roso dal verme della finta tragedia
e l’abito dell’indifferenza a nascondere la vergogna della sconfitta;
io, figlio dell’idealismo antischiavista,
una specie di Brand d’incerta origine,
che mai potevo fare quando difesi quei furfanti di patrioti che avevano incendiato il tribunale,
perché Spoon River ne avesse uno nuovo,
se non sostenere l’accusa? Quando Kinsey Keene trapassò la maschera di cartone della mia vita con una lancia di luce,
che cosa potevo fare se non fuggir via, come la bestia
che avevo allevato dal cucciolo che ero, a ringhiare in un canto?
La piramide della mia vita non fu che una duna,
sterile e informe, spazzata alla fine dalla tempesta.

E. Lee-Masters, Antologia di Spoon River, W. Lloyd Garrison Standard

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La bella Dulcinea del Toboso

– L’assegno lo scriverò sul libriccino e lo firmerò; e mia nipote vedendolo non farà difficoltà a pagartelo; quanto alla lettera d’amore, per firma tu ci metterai: « Vostro fino alla morte: il Cavaliere dalla Triste Figura ». E che sia d’un’altra mano vorrà dir poco, perché, se ben mi ricordo, Dulcinea non sa né leggere né scrivere, e non ha mai visto in vita sua né una lettera né una sillaba di mano mia; perché il nostro amore è stato sempre platonico, e non è andato più là di semplici sguardi, e anche quelli così di rado, che potrei giurare con sicurezza che in dodici anni da che l’amo più che la luce di quest’occhi destinati a spegnersi sotterra, non l’ho vista che poche volte, e in queste poche volte potrà anche darsi che non si sia mai accorta ch’io la guardavo: tanta è l’educazione riservata e rigida che le hanno dato suo padre Lorenzo Corciuelo e sua madre Aldonza Nogales.
– To’ to’ to’! — disse Sancio. — Senti, senti chi l’è la sora Dulcinea del Toboso! L’è la figliuola di Lorenzo Corciuelo! Ma la non si chiama anche in un’altra maniera? La non si chiama anche Aldonza Lorenzo?
— proprio lei — disse Don Chisciotte — lei che merita di essere signora di tutto l’universo.
– Accidenti se la conosco! — disse Sancio. — Quella li?! Quella l’è bona di lanciar la sbarra meglio che il giovanotto più robusto di tutto il paese! Mondo birbone, che ragazza in gamba! Grande, grossa, forzuta: quella li l’è tipo da far pelo e contropelo a qualunque cavaliere errante o fermo, che la scelga per dama. Figlia d’una puttana! che forza che l’ha! e che vocione! Un giorno la si mise in vetta al campanile del villaggio a chiamare dei garzoni che lavoravano in una sodaglia di suo padre, e sebbene fossero lontani più di mezza lega, la sentiron come se fossero stati a piè della torre. E poi, quel che è bello, la non è punto spocchiosa; anzi, la si lascia maneggiare che gli è un piacere, la scherza con tutti, e celia su tutto.

Cervantes, Don Chisciotte, cap. XXV

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Uomini e bestie

e mentre i bianchi proclamavano che gli indiani erano bestie, questi si contentavano di sospettare che quelli fossero dèi. A uguale livello di ignoranza, l’ultima ipotesi era senza dubbio la più degna di uomini.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, cap. 8

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Il poeta e la Patagonia

Il poeta viveva solo, in una capanna di due stanze, su un tratto solitario del fiume, in mezzo a piante inselvatichite di albicocche. Aveva insegnato letteratura a Buenos Aires, era arrivato in Patagonia quarant’anni prima e ci era rimasto. Bussai alla porta e il poeta si svegliò. Piovigginava e, mentre si vestiva, restai sotto il portico a osservare il gruppo dei suoi prediletti rospi. Le sue dita mi strinsero il braccio. Mi fissava con un intenso sguardo luminoso. « La Patagonia! » gridò. « È un’amante difficile. Lancia il suo incantesimo. Un’ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più ».
La pioggia tamburellava sul tetto di lamiera. Per le due ore che seguirono il poeta fu per me la Patagonia.

B. Chatwin, In Patagonia, cap. 14

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