Archivi del mese: Maggio 2013

Rimpiante estati d’un ragazzo povero

Cosa avrei dato per vedere ancora il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba – adesso che sapevo tante cose e sapevo difendermi. Non era mica compassione che provavo per lui, certi momenti lo invidiavo. Mi pareva di sapere anche i sogni che faceva la notte e le cose che gli passavano in mente mentre arrancava per la piazza. Non avevo camminato così, non ero zoppo io, ma quante volte avevo visto passare le carrette rumorose con su le sediate di donne e ragazzi, che andavano in festa, alla fiera, alle giostre di Castiglione, di Cossano, di Campetto, dappertutto, e io restavo con Giulia e Angiolina sotto i noccioli, sotto il fico, sul muretto del ponte, quelle lunghe sere d’estate, a guardare il cielo e le vigne sempre uguali. E poi la notte, tutta la notte, per la strada si sentivano tornare cantando, ridendo, chiamandosi attraverso il Belbo. Era in quelle sere che una luce, un falò, visti sulle colline lontane, mi facevano gridare e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente. Quasi godevo se veniva un temporale, il finimondo, di quelli d’estate, e gli guastava la festa. Adesso a pensarci rimpiangevo quei tempi, avrei voluto ritrovarmici.

C. Pavese, La luna e i falò , cap XIX

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I viaggi iniziano da bambini

C’erano in cielo delle lunghe strisce di vento, bave bianche, che parevano la colata che si vede di notte nel buio dietro le stelle. Io pensavo che domani sarei stato in viale Corsica e mi accorgevo in quel momento che anche il mare è venato con le righe delle correnti, e che da bambino guardando le nuvole e la strada delle stelle, senza saperlo avevo già cominciato i miei viaggi.

C. Pavese, La luna e i falò , cap. XXXI

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Paralisi d’amore

Per la prima volta nella sua vita, Spooner era soddisfatto di dov’era, anche se col tempo ne avrebbe pagato il prezzo. Il primo segno fu che a volte si ritrovava a guardare Mrs Spooner con la bambina e quasi non riusciva a muoversi, per la paura di perdere quel che aveva. A dirla tutta, Spooner non era programmato per avere quel che voleva, e non si era mai dato il pensiero di proteggere quel che aveva, anzi, non aveva mai ritenuto che fosse possibile proteggerlo, o che la cosa fosse in qualche modo nelle sue mani. Fino a che non comparve la donna, e poi la bambina, aveva sempre dato per scontato che qualunque cosa gli cadesse in grembo gli sarebbe anche caduta dal grambo, prima o poi.

Pete Dexter, Spooner, pag. 241.

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Gabriella

Lei rimase come in attesa, col sorriso sulle labbra, con quel chiarore di luna fra i capelli e profumo di garofano.
– … Adesso va’ a letto, perché è già tardi.
La ragazza si avviò, egli rimase a guardarle le gambe, l’ondeggiare armonioso del corpo, il pezzo di coscia color cannella. Lei si voltò:
– Allora buonanotte, padrone…
Disparve nel buio del corridoio, a Nacib parve che ella mormorasse sottovoce: “Bel ragazzo…”

J.Amado, Gabriella garofano e cannella , pag. 179

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Le leggi, i codici, i comandamenti… e poi i racconti.

Ben sapendo che tutto può essere sostenuto e che ogni convinzione contraria può essere contraddetta, la ragione ci può essere data sempre e tutto può essere raccontato se viene proposto accompagnandolo con la sua esaltazione o con la sua giustificazione o con la sua attenuante o con la sua pura rappresentazione, raccontare è una forma di generosità, tutto può accadere e tutto può essere enunciato e può essere accettato, da tutto si può uscire impuniti, o addirittura indenni, i codici e i comandamenti e le leggi non si sostengono e si possono trasformare di continuo in carta straccia, ci sarà sempre qualcuno che riuscirà a dire: “Non si applicano a me, o non nel mio caso, o non questa volta, magari la prossima, se ci sarà una prossima volta”.

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me, pag. 123

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Atmosfere candomblé

Quando la luna sorgeva dietro la roccia Do Rapa, raschiando il buio della notte, le sarte diventavano pastorelle, Dora si trasformava in regina, la casa di Dora in barca a vela. La pipa di Nilo diventava stella, ed egli portava lo scettro regale nella mano destra, e nella sinistra allegria. Entrando, si toglieva il berretto da marinaio dove nascondeva venti e tempeste, e lo gettava sul vecchio manichino. Allora cominciava la magia. Il manichino si animava, donna con una gamba sola, avvolto in un abito non finito, con un berretto sulla testa inesistente. Nilo la stringeva alla vita, ballavano nella stanza. Era simpatico il manichino danzante su di una gamba sola, era strano. Le pastorelle ridevano, Miquelina scioglieva la sua risata folle, Dora sorrideva da regina.
Dalla collina arrivavano le altre pastorelle, arrivava Gabriella dalla casa di donna Arminda, e non erano ormai più pastorelle, ma figlie di santo, de Iansan. Ogni notte, Nilo liberava l’allegria nella stanza. Nella misera cucina, Gabriella fabbricava ricchezze: polpettine di rame, brasato d’argento, il mistero dorato del couscous. La festa aveva inizio.
D’ora di Nilo, Nilo di Dora, ma quale delle pastorelle non avrebbe cavalcato Nilo, piccolo dio della terra? Erano giumente della notte, cavalcature di santi. Nilo si trasformava, diventava tutti i santi, era Ogun e Xangô, Oxossi e Omolu, era Oxalá per Dora. Chiamava Gabriella Yemanjá, da lei sorgevano le acque, il fiume Cachoeira e il mare di Ilhéus, le sorgenti fra le rocce. Sotto i raggi della luna, la casa veleggiava in cielo, saliva verso la collina, viaggiava nella festa. Le canzoni erano vento, le danze erano remi, Dora la polena sulla prua. Comandante era Nilo, dirigeva i marinai.
I marinai arrivavano dal porto: il negro Terêncio suonatore di timpano, il mulatto Traíra chitarrista celebre, il ragazzo Batista cantore di stornelli e Mário Cravo, santone pazzo, mago da baraccone. Nilo fischiava, la stanza saliva, era terra di santo, candimblé e macumba, era sala di danza, era letto di nozze, barca senza meta sulla collina di Unhão, veleggiante al chiarore lunare. Nilo liberava ogni notte l’allegria. Portava la danza nei piedi, il canto nella bocca.
Sete Voltas era spada di fuoco, raggio perduto, spavento notturno, fragore di lampi. La casa di Dora divenne girotondo di capoeira quando egli apparve con Nilo, il corpo dondolante, il pugnale alla cintura, pieno di dignità, di fascino. Si inchinarono le pastorelle, arrivava uno dei re magi, un dio della terra, un cavaliere di santi per cavalcare giumente di santi.
Giumenta di Jemanjá, Gabriella partiva per praterie e montagne, per valli e per mari, per oceani immensi. Danzando nella danza, cantando nel canto, giumenta cavalcata. Un pettine di osso, una bottiglia di profumo, lanciati dalla scogliera alla dea del mare, domandava la grazia: la cucina di Nacib, la sua cucina, la stanzetta in fondo al corridoio, i peli del petto, i baffi da carezzare, la gamba pesante abbandonata sul ventre.

J. Amado, Gabriella garofano e cannella, pag. 477

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Eduardo Deàn

Quello sgaurdo denota posizioni inamovibili una volta assunte e una forte capacità di convincimento, quelle incipienti rughe multiple che faranno del suo viso corteccia d’albero quando sarà più vecchio, quella lentezza e quella capacità di sorpresa e quella capacità di comprensione infinita che adesso sento e vedo da vicino all’altro lato del tavolo, si tratta di qualcuno che conosce e misura le conseguenze dei propri atti e che sa che tutto è possibile e non ci deve meravigliare altro che per un istante – soltanto quello che precede la comprensione infinita -, neppure quello che pensiamo o facciamo noi stessi, la crudeltà, la pietà, l’irrisione, la malinconia e la collera; la burla, la rettitudine e la buona fede e il ripiegamento in sè stesso; la veemenza, o forse l’inclemenza, tutto ciò senza le correzioni che rifiutano o sottovalutano coloro che si fermano a pensare un po’, e dopo agiscono.

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me, pag. 123.

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Irene da dietro il sambuco

Io stavo zitto, certi giorni d’estate, seduto a Belbo, pensavo a Silvia. A Irene, così bionda, non osavo pensare. Ma un giorno che Irene era venuta a far giocare Santina nella sabbia e non c’era nessuno, le vidi correre e fermarsi all’acqua. Stavo nascosto dietro un sambuco. La Santina gridava mostrando qualcosa sull’altra riva. E allora Irene aveva posato il libro, s’era chinata, tolte le scarpe e le calze, e così bionda, con le gambe bianche, sollevandosi la gonna al ginocchio, era entrata nell’acqua. Traversò adagio, toccando prima col piede. Poi gridando a Santina di non muoversi, aveva raccolto dei fiori gialli. Me li ricordo come fosse ieri.

C. Pavese, La luna e i falò , CAP XX

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Quando gli interpreti si fanno legislatori

Erano due conseguenze naturali del non esserci complessi di leggi composte con un intento generale, che gl’interpreti si facessero legislatori, e fossero a un di presso ricevuti come tali; giacchè, quando le cose necessarie non son fatte da chi toccherebbe, o non son fatte in maniera di poter servire, nasce ugualmente, in alcuni il pensiero di farle, negli altri la disposizione ad accettarle, da chiunque siano fatte.

Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame, pag. 31.

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Da sventurati a colpevoli

Pur troppo, l’uomo può ingannarsi, e ingannarsi terribilmente, con molto minore stravaganza. Quel sospetto e quella esasperazion medesima nascono ugualmente all’occasion di mali che possono essere benissimo, e sono in effetto, qualche volta, cagionati da malizia umana; e il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni.

Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame, pag. 26.

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