Archivi del mese: giugno 2013

Danze di giovani e di vecchi nel cuore dell’Africa

Le Ngomas di giorno erano, fra l’altro, molto rumorose. Spesso, in mezzo al chiasso degli spettatori, non si distingueva più nemmeno la musica dei flauti e dei tamburi; quando, in una delle figurazioni eseguite dai soli maschi, un morano saltava o vibrava la lancia in modo particolarmente elegante, le ballerine lanciavano uno strano urlo, lungo e acuto. Il brusio dei vecchi, intenti a discutere fra loro, sull’erba, non cessava un istante. Era un piacere vedere due vecchissime kikuyu spassarsela davanti a una coppia di calabash, assorte in allegre chiacchiere; probabilmente parlavano dei giorni lontani in cui anch’esse avevano brillato nelle danze, i visi sempre più raggianti di felicità mentre, col volgere del pomeriggio, il sole continuava a calare insieme alla riserva di tembu dentro il calabash. Talvolta, se il vecchio sposo si avvicinava, una di loro, trascinata dai ricordi di giovinezza, si alzava in piedi vacillando, agitando le braccia, accennando qualche passo di danza nel più perfetto stile Ndito. Gli spettatori non le badavano, ma il gruppetto dei vecchi suoi coetanei la applaudiva entusiasticamente.

K. Blixen, La mia Africa, III, 1

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Con occhi yanomami

La terra-foresta può morire solo se distrutta dai bianchi. Se accadrà, i ruscelli scompariranno, la terra diventerà friabile, gli alberi seccheranno, le rocce delle montagne si spaccheranno per il calore. Gli spiriti xapiripë che vivono nelle montagne e giocano nella selva, fuggiranno. I loro padri, gli sciamani, non potranno più richiamarli a proteggerci. La terra-foresta diventerà secca e deserta. Gli sciamani non potranno più trattenere i vapori-epidemie e gli esseri magici che ci fanno ammalare. È così che moriranno tutti gli uomini. […] I bianchi sono ingegnosi, hanno molte macchine e molte merci, ma nessuna saggezza. […] All’inizio, erano come noi, ma hanno dimenticato tutte le loro antiche parole. […] Quando viaggiai lontano, vidi la terra dei bianchi. Visitai la terra che loro chiamano Europa. Era la loro foresta, ma l’hanno denudata tagliando gli alberi per fare le loro case. Fecero molti figli, non smettevano di aumentare, e non c’era più foresta. Smisero di cacciare, perché non c’erano più neanche animali. I loro figli si misero a fabbricare merci e il loro spirito cominciò a oscurarsi a causa di tutti quei beni sui quali si fissarono col loro pensiero. Costruirono case di pietra, perché non si rovinassero. Continuarono a distruggere la foresta, dicendosi: ‘Diventeremo il popolo delle merci! Ne fabbricheremo molte, e anche molto denaro!’ […] Fu con questa idea che fecero piazza pulita della loro foresta e sporcarono i loro fiumi. Oggi bevono solo acqua ‘impacchettata’, e devono comprarla. L’acqua vera, quella che corre nei fiumi, non è più buona da bere. Nei tempi antichi, i bianchi vivevano come noi nella foresta e i loro antenati erano poco numerosi. Omama trasmise anche a loro le sue parole, ma non lo ascoltarono. Pensarono che erano bugie, e si misero a cercare minerali e petrolio ovunque, tutte le cose pericolose che Omama aveva deciso di nascondere sotto la terra e le acque perché il loro calore è pericoloso. Ma i bianchi le trovarono e pensarono di fare con quelle strumenti, macchine, automobili, aerei. […] Quando conobbi la terra dei bianchi, mi sentii inquieto. Alcune città sono belle, ma il loro rumore non si ferma mai. Loro corrono nelle città con le macchine: nelle strade e persino con treni che corrono sotto terra. C’è molto rumore, e gente in ogni angolino.
Lo spirito diventa oscuro e aggrovigliato, non si riesce più a pensare bene. È per questo chi il pensiero dei bianchi è pieno di vertigine, e loro non capiscono le nostre
parole. […] Non hanno paura di cadere nel mondo sotterraneo. Eppure, è ciò che accadrà. […] Noi vogliamo che la foresta resti com’è, per sempre. Vogliamo viverci in salute e vogliamo che continuino a viverci gli spiriti xapiripë, la selvaggina e i pesci. Coltiviamo soltanto le piante che ci servono per mangiare, non vogliamo fabbriche né buchi nella terra, né fiumi sporchi. Vogliamo che la foresta resti silenziosa, che il cielo continui chiaro, che l’oscurità della notte scenda davvero e che si possano vedere le stelle. Le terre dei bianchi sono ricoperte dal fumo-epidemia-xawara, che è arrivato molto alto, nel petto del cielo. È un fumo che viene verso di noi, ma ancora non arriva, perché lo spirito celeste Hutukarari lo respinge ancora senza sosta. In un futuro lontano, quando io sarò morto, forse questo fumo aumenterà al punto di estendere l’oscurità sulla terra e spegnere il sole. I bianchi non pensano mai a queste cose che gli sciamani conoscono, per questo non hanno paura. Il loro pensare è colmo di oblio. Continuano a fissare senza sosta le loro merci, come se fossero le loro fidanzate.

Y. Castelfranchi, Amazzonia – cita lo sciamano yanomami Davi Kopenawa in un discorso del 1998 – cap. 3

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Vieni qui e dormi!

«Come to bed», dicevi a partire dalle tre. lo rispondevo «I am coming» e tu: «Don’t be coming, come!». Non c’era alcun rimprovero nella tua voce. Mi piaceva che mi reclamassi lasciandomi tutto il tempo di cui avevo bisogno.

A. Gorz, Lettera a D., pag. 39

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Unione

Non sapevo quali legami invisibili si tessevano tra noi. A te non piaceva parlare del tuo passato. Avrei capito a poco a poco quale esperienza fondatrice ci rendeva di primo acchito l’uno vicino all’altra.

A. Gorz, Lettera a D., pag. 22

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Il sangue è rosso dappertutto

Con Nuto venne uno momento, quando avevo già sedici diciassette anni e lui stava per andare soldato, che o lui o io arraffavamo una bottiglia in cantina, e poi ce la portavamo sul Salto, ci mettevamo tra le canne se era giorno, sulla proda della vigna se c’era la luna, e bevevamo alla bocca discorrendo di ragazze. La cosa che non mi capacitava a quei tempi, era che tutte le donne sono fatte in un modo, tutte cercano un uomo. È così che dev’essere, dicevo pensandoci; ma che tutte, anche le più belle, anche le più signore, gli piacesse una cosa simile mi stupiva. Allora ero già più sveglio, ne avevo sentite tante, e sapevo, vedevo come anche Irene e Silvia correvano dietro a questo e a quello. Però mi stupiva. E Nuto a dirmi: – cosa credi? La luna c’è per tutti, così le piogge, così le malattie. Hanno un bel vivere in un buco o in un palazzo, il sangue è rosso dappertutto.
– Ma allora cosa dice il parroco, che fa peccato?
– Fa peccato il venerdì, – diceva Nuto asciugandosi la bocca, – ma ci sono altri sei giorni.

C. Pavese, La luna e i falò , CAP XVII

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Effluvi nella Mancia

Intanto, o fosse il fresco della mattina che si avvicinava, o che a cena avesse mangiato qualche cosa di lassativo, o che fosse un bisogno naturale come è più probabile, fatto sta che a Sancio gli venne voglia di fare ciò che un altro non avrebbe potuto fare per lui; ma ormai gli era entrata in corpo tanta paura, che non osava staccarsi un pelo dal suo padrone. D’altra parte, di poterne far di meno non c’era neanche da pensarci. Quindi non trovò altro espediente che quello di ritirare la mano destra dall’arcione posteriore, su cui fin allora l’aveva tenuta, benin benino, senza far rumore, si sciolse la cordicella con cui erano legati in cintola i pantaloni, che, non avendo altri legami, gli sdrucciolaron giù, e gli rimasero come pastoie in fondo alle gambe. Poi si tirò su alla meglio la camicia, e mise all’aria un paio di chiappe che non erano tanto piccine; e allora credette che, per uscir di pena, il più fosse fatto. Invece, eccoti un altro e più grave guaio! Perché sentì benissimo che non avrebbe potuto dargli la via senza far dei rumori; quindi serrò i denti, strinse le spalle, trattenne il fiato più che poté, ma, non ostante tutte queste precauzioni, non ebbe fortuna, perché alla fine un po’ di rumore ci fu, e non somigliava proprio punto al rumore che gli aveva messo addosso tanta paura.
Don Chisciotte lo sentì.
– Sancio – gli chiese – che rumore è questo?
– Non lo so, signor padrone – rispose lui – ma qualche novità ci deve essere di certo. E poi le avventure e le sventure, quando cominciano, per poco non ci si mettono.
Si riprovò a tentare la fortuna, e gli andò tanto bene, che senza fare più rumore di prima, si liberò dalla carica che gli aveva dato tanta noia. Ma Don Chisciotte aveva l’odorato fino quanto l’udito, e siccome gli stava così accosto e così cucito addosso che le esalazioni salivan su quasi in linea retta, era inevitabile che qualcuna gli arrivasse al naso. Infatti vi arrivarono, ed egli corse subito al riparo stringendoselo fra le dita, quindi con voce nasale:
– Sancio -disse – mi pare che tu abbia una gran paura.
-Oh, sì, tanta! – Rispose lui – ma da che se n’accorge, ora più di prima?
– L’odore che tu mandi ora più di prima, e non precisamente d’ambra.

Cervantes, Don Chisciotte, cap. XX

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Verso Santiago

E d’un tratto accade, vuoi scendere dall’automobile, vuoi camminare, hai sbagliato fin dall’inizio, non puoi stare all’ombra degli altri, dei veri pellegrini, quelli che hanno percorso tutto il tratto a piedi, gli unici che sanno veramente che cosa significhi. “Una volta lo farò”, pensi tra te, e speri che sia vero, per vedere com’è lasci ferma l’automobile per un giorno e prosegui a piedi. Senza bastone e senza bagagli, senza conchiglia, perché a quella non hai diritto, ma cammini, e poiché cammini sei diventato una persona diversa. Soltanto adesso ti rendi conto della reale portata dell’impresa, a un tratto sei costretto a misurarti esclusivamente con te stesso, con i tuoi pensieri nei quali cerchi di comprendere quelli degli altri, dei pellegrini di un tempo. Poiché a volte mancano i cartelli, spesso non sai dove ti trovi, ti resta solamente il ritmo dei tuoi passi. Ora sei tu che conti le ore, che osservi la lentezza del paesaggio che ti circonda, camminando su una superficie polverosa, solo in lontananza la sagoma di un’unica casa, o, più tardi, un altro giorno, un’altra volta, lungo un fiume un bosco, là dove il terreno torna a essere più selvaggio e ondulato.
Le immagini di tutte quelle chiese si sono già da tempo mescolate in un nastro incredibilmente lungo che da Haarlem o Parigi o Cluny sale e scende seguendo il paesaggio, ora a parlare sono altre voci, gazze e civette, altri rumori, i passi di un altro, acqua tumultuosa contro un ponte, animali notturni invisibili, una voce che canta in una casa.

Cees Nooteboom, Verso Santiago, pag. 296.

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La coscienza dei Caribes

Quando si abbassavano le acque dell’Orinoco, le piroghe portavano i caribes con le loro asce di guerra.
Nessuno poteva nulla contro i figli del giaguaro. Radevano al suolo i villaggi e facevano flauti con le ossa delle loro vittime.
Non temevano nessuno. Li spaventava solo un fantasma che era scaturito dai loro stessi cuori.
Li aspettava nascosto dietro ai tronchi. Rompeva i ponti e collocava sul loro passaggio liane aggrovigliate che li facevano inciampare. Viaggiava di notte e, per sviarli, calpestava la terra alla rovescia. Era sul picco da cui si staccava il masso, nella melma che affondava sotto i piedi, nella foglia della pianta velenosa, nello strofinio del ragno. Soffiando li atterrava, dall’orecchio introduceva la febbre nel loro corpo e ne rubava l’ombra.
Non era il dolore, ma doleva. Non era la morte, ma uccideva. Si chiamava kanaima ed era nato tra i vincitori per vendicare i vinti.

E. Galeano, Memoria del fuoco, La coscienza

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Voglio fare con te

Quanto ti sarà costato abituarti a me,
alla mia anima solitaria e selvaggia, al mio nome che tutti evitano.
Tante volte abbiamo visto splendere I’astro baciandoci gli occhi
e piegarsi sul nostro capo i crepuscoli in ventagli giranti.
Le mie parole ti sono piovute addosso come carezze.
Amo da tempo ormai il tuo corpo di madreperla assolata.
Ti credo persino signora dell’universo.
Ti porterò dai monti fiori allegri, copihues,
nocciole scure e ceste silvestri di baci.

Voglio fare con te
quello che la primavera fa con i ciliegi.

P. Neruda, XIV

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Logica e intuito: marito e moglie

Per molto tempo ti sei lasciata intimidire dal mio lato perentorio: vi immaginavi l’espressione di conoscenze teoriche che non padroneggiavi. A poco a poco, hai rifiutato di lasciarti influenzare. Meglio: ti ribellavi contro le costruzioni teoriche e in particolare contro le statistiche. Esse sono tanto meno probanti, dicevi, dal momento che non hanno senso che attraverso la loro interpretazione. Ora questa non può sostenere lo stesso rigore matematico al quale la statistica pretende di dovere la sua autorità. Avevo bisogno di teorie per strutturare il mio pensiero e ti obiettavo che un pensiero non strutturato minaccia sempre di sprofondare nell’empirismo e nell’inconsistenza. Tu rispondevi che la teoria minaccia sempre di diventare un peso che vieta di percepire la fluida complessità del reale. Abbiamo avuto queste discussioni decine di volte e sa-
pevamo in anticipo quello che l’altro avrebbe risposto. In fin dei conti esse rientravano nella sfera del gioco. Ma in questo gioco eri tu che tenevi le fila. Tu non avevi avuto bisogno di scienze cognitive per sapere che senza intuizioni né affetti non c’è né intelligenza né significato.

A. Gorz, Lettera a D., p.50

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