È difficile descrivere il concetto che gli ona avevano del mehn. Sebbene io non abbia mai sentito usare questo termine nel senso di qualcosa di vivo o di qualcosa di immaginario, avrebbe potuto facilmente racchiudere entrambi i significati. Era sia una chimera sia un’entità – o meglio, un numero infinito di entità. Mehn poteva essere l’ombra di un uomo stagliata sul terreno, o il suo riflesso in un lago o in uno specchio; oppure un qualcosa di vago che si librava tra gli alberi della foresta, leggero come il piú tenue degli anelli di fumo; o come quelle ombre impalpabili che si vedono nei giorni senza sole, o come un tremore appena percepibile. Il mehn poteva far sorgere la premonizione di un pericolo o avvisare di un’imminente sciagura. Forse è capitato anche a qualche uomo civilizzato, e in particolare a chi andava a caccia da solo, di avvertire la presenza del mehn, anche se poi si sarà ben guardato dal raccontarlo in giro, per paura di sentirsi dare del povero matto. Quando un ona moriva, spirava anche il suo mehn. Nessuno ha mai chiesto o immaginato dove fosse andato a finire, non piú di quanto si chiedessero o immaginassero che cosa fosse successo all’aria dell’ultimo respiro. Il mehn di un uomo poteva abbandonarlo ed entrare nella sua ombra o nel suo riflesso sull’acqua o sul vetro, ma nessuno poteva portarlo via; ritornava da lui e l’uomo non perdeva niente. Quando nella terra degli ona apparvero le prime macchine fotografiche, i nativi nei primi tempi non gradivano essere fotografati. La loro obiezione era che alcuni dei loro mehn potevano essere portati via e, una volta trasferiti sulla carta, restarvi prigionieri per sempre.
E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII