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Le ombre degli Ona e la paura della fotografia

È difficile descrivere il concetto che gli ona avevano del mehn. Sebbene io non abbia mai sentito usare questo termine nel senso di qualcosa di vivo o di qualcosa di immaginario, avrebbe potuto facilmente racchiudere entrambi i significati. Era sia una chimera sia un’entità – o meglio, un numero infinito di entità. Mehn poteva essere l’ombra di un uomo stagliata sul terreno, o il suo riflesso in un lago o in uno specchio; oppure un qualcosa di vago che si librava tra gli alberi della foresta, leggero come il piú tenue degli anelli di fumo; o come quelle ombre impalpabili che si vedono nei giorni senza sole, o come un tremore appena percepibile. Il mehn poteva far sorgere la premonizione di un pericolo o avvisare di un’imminente sciagura. Forse è capitato anche a qualche uomo civilizzato, e in particolare a chi andava a caccia da solo, di avvertire la presenza del mehn, anche se poi si sarà ben guardato dal raccontarlo in giro, per paura di sentirsi dare del povero matto. Quando un ona moriva, spirava anche il suo mehn. Nessuno ha mai chiesto o immaginato dove fosse andato a finire, non piú di quanto si chiedessero o immaginassero che cosa fosse successo all’aria dell’ultimo respiro. Il mehn di un uomo poteva abbandonarlo ed entrare nella sua ombra o nel suo riflesso sull’acqua o sul vetro, ma nessuno poteva portarlo via; ritornava da lui e l’uomo non perdeva niente. Quando nella terra degli ona apparvero le prime macchine fotografiche, i nativi nei primi tempi non gradivano essere fotografati. La loro obiezione era che alcuni dei loro mehn potevano essere portati via e, una volta trasferiti sulla carta, restarvi prigionieri per sempre.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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Cacciatori – raccoglitori

L’esistenza di queste società ci allarma. In parte è una preoccupazione che incontriamo quando scriviamo la nostra storia. La modifichiamo per elevarci nel creato che ci circonda, per isolarci dagli antenati cacciatori che ci mettono a disagio. Ci sembrano troppo simili ad animali predatori, insolenti e violenti. Le culture dei cacciatori sono troppo barbariche per noi. Condannandole, giudichiamo inevitabile il fatto che le loro consuetudini vengano eclissate.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 391.

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Umwelten

Possiamo soltanto formulare ipotesi sul modo in cui gli animali organizzano il territorio in spazi per loro significativi. I mondi che percepiscono, i loro Umwelten, sono tutti diversi. La scoperta dell’Umwelt di un animale e la sua delucidazione richiedono grande pazienza e ingengosità sperimentale, un libero scambio di informazioni tra osservatori diversi, ore di osservazioni dirette, e una riluttanza a “sommarizzare” l’animale. Questa, secondo la mia esperienza, e la metodologia del cacciatore eschimese. In circostanze ideali può essere anche la metodologia della scienza occidentale.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 266.

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Mente aborigena

La mente che conosciamo nel sogno, la comprensione non razionale e non lineare degli eventi in cui sono normali gli slittamenti nel tempo e nello spazio, è secondo la mia opinione la mente conscia e attiva di un cacciatore aborigeno. È uno stato che ridefinisce la pazienza, la costanza, l’attesa.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 204.

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Il viaggiatore riluttante

Il modo in cui siamo disposti verso la terra è più nebuloso, più difficile da definire. Il viaggiatore riluttante, che riflette su quanto sta accadendo in patria, non bada al paesaggio. E nessuno sta invece attento quanto un cacciatore indigeno affamato.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 269.

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La caccia

Secondo la mia esperienza, la caccia (e per caccia intendo semplicemente trovarsi nel territorio) è uno stato d’animo. Tutte le facoltà dell’individuo sono orientate verso lo sforzo di incorporarsi pienamente nel paesaggio. E’ qualcosa di più che rimanere in ascolto per sentire il movimento degli animali, cercare le impronte o percepire un cambiamento del tempo. E’ più di un’analisi di ciò che si percepisce con i sensi. Cacciare significa portare addosso come un indumento il territorio circostante, intrattenere con esso un dialogo senza parole, così avvincente che si smette di parlare con i compagni umani. Significa distaccarsi dalle immagini razionali di ciò che qualcosa “significa” per concentrarsi soltanto su ciò che “è”. E riconoscere che le cose esistono solo in quanto possono essere relate ad altre cose. Queste relazioni, le gocce fresche di umidità sulla roccia al guado di un fiume e la voce lontana d’un corvo, diventano schemi. Gli schemi sono sempre in movimento. All’improvviso lo schema (che include la fame fisica, il ricordo della famiglia e i ricordi della valle che state attraversando, con queste particolari piante e questi particolari odori) comprende il caribù. C’è un caribù davanti a voi. La freccia o la pallottola sono come una parola pronunciata a voce alta. È qualcosa che avviene alla periferia della vostra concentrazione.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 204.

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Uomini e animali

Una differenza fondamentale tra la nostra cultura e la cultura eschimese, che in certe situazioni si può percepire anche oggi, è che noi ci siamo irrevocabilmente distaccati dal mondo occupato dagli animali. Abbiamo trasformato in oggetti tutti gli animali e gli elementi del mondo naturale. Li manipoliamo affinché servano gli scopi complicati del nostro destino. Gli eschimesi non afferrano facilmente questa separazione, e faticano a immaginarsi interamente rimossi dal mondo degli animali. Per molti di loro compiere questa separazione è isolarsi dalla luce o dall’acqua. È difficile immaginare come si possa riuscirci.
Una seconda differenza è che, siccome abbiamo oggettificato gli animali, possiamo trattarli in modo impersonale. Ciò riguarda non soltanto gli animali che vivono intorno a noi ma anche quelli che vivono in terre lontane. Per gli eschimesi, quasi tutte le relazioni con gli animali sono locali e personali. Gli animali che un individuo incontra fanno parte della sua comunità; e ha certi obblighi verso di loro. Per gli eschimesi uno degli aspetti più frastornanti della cultura occidentale è la spersonalizzazione dei rapporti con i membri umani e animali delle nostre comunità. E questo è complicato, anziché semplificato, dai loro tentativi di imparare ad oggettificare gli animali.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 204.

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Lezioni di silenzio per fotografi

In mezzo alla natura selvaggia avevo imparato a guardarmi dai movimenti bruschi. Le creature che si incontrano là sono ombrose e guardinghe; sanno cogliere di sorpresa, sfuggire quando meno ci si aspetta. Un animale domestico sarebbe incapace di stare quieto come un animale selvaggio. Gli uomini civilizzati non sanno più cos’è la vera calma, e devono prendere lezioni di silenzio dal mondo selvaggio, prima che quel mondo li accetti. L’arte di muoversi con delicatezza, senza scatti improvvisi, è la prima arte del cacciatore, soprattutto del cacciatore con la macchina fotografica.

K. Blixen, La mia Africa, part I,1

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Vita. E Tenebra.

Nessuna cultura ha ancora risolto il dilemma che ha dovuto affrontare con l’evolversi d’una mente conscia: come vivere un’esistenza morale e ricca di compassione quando si è pienamente consci del sangue, dell’orrore inerente il tutto ciò che è vita, quando si trova la tenebra non soltanto nella propria cultura ma anche in se stessi. Se vi è una fase in cui una vita individuale diviene veramente adulta, deve essere quando si afferra l’ironia e si accetta la responsabilità d’una vita vissuta in tale paradosso.
È necessario vivere in mezzo alla contraddizione, perché se tutte le contraddizioni venissero eliminate simultaneamente la vita crollerrebbe. Non esistono risposte ad alcuni dei grandi interrogativi pressanti. Si continua a viverli facendo della propria vita una degna espressione della tendenza verso la luce.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 394.

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Gli antichi mercanti di Zanzibar

Giungendo a Mombasa per la prima volta, attraverso i vecchi, grigio chiari alberi di baobab – non sembrano una vegetazione terrestre, ma fossili porosi, giganteschi ossi di seppia – si scorgono rovine color cenere di case, di minareti, di pozzi. Rovine che si trovano lungo tutta la costa, a Takaunga, a Kalifi, a Lamu: sono i resti delle città degli antichi arabi, trafficanti d’avorio e di schiavi.
Le loro navi percorrevano tutte le vie marittime e fluviali dell’Africa; lungo le strade azzurre, giungevano fino al mercato centrale di Zanzibar, noto sin dai tempi in cui Aladino mandò al Sultano quattrocento schiavi carichi di gioielli, e la moglie del Sultano banchettò col suo amante negro mentre il marito era a caccia, e pagò poi con la morte il suo tradimento.
Probabilmente, arricchitisi, quei grandi mercanti portarono a Mombasa e a Kalifi i loro harem e si stabilirono nelle ville di fronte alle lunghe onde bianche dell’oceano e agli alberi fioriti di rosso sgargiante, mentre le loro spedizioni battevano gli altipiani.
Perché da quel paese aspro e selvatico, da quelle pianure arse brucianti, da quelle distese inesplorate e senz’acqua, da quella regione folta di spineti serpeggianti lungo i fiumi e di piccoli fiori selvaggi dal profumo pungente, sulla terra nera, veniva la loro ricchezza. Là, sopra il tetto dell’Africa, vagabondava, massiccio, sapiente, maestoso il portatore dell’avorio. Viveva immerso nei suoi pensieri e voleva essere lasciato solo. Ma le frecce avvelenate dei piccoli, neri Wanderobos, e le lunghe carabine ad avancarica intarsiate d’argento degli arabi lo inseguivano, lo colpivano; chiuso in trappola, veniva gettato in una fossa: tutto per le sue lunghe, lisce zanne di un bruno chiaro che qualcuno stava aspettando, a Zanzibar.

K. Blixen, La mia Africa, parte II, cap. 5.

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