Archivi del mese: luglio 2015

Amore e perdono

Il primo movimento dell’amore non è quello dell’avere, ma quello del cedere, del perdersi, dell’assoluta esposizione, priva di riserve, all’Altro. In questo senso la sola condizione del perdono è il riconoscimento del carattere ingovernabile e radicalmente libero del desiderio dell’Altro e della sua lingua straniera di cui la donna è l’incarnazione più radicale. Per questa ragione il lavoro del perdono rivela più di ogni altra cosa come nessun disegno di appropriazione dell’Altro potrà mai garantire la realizzazione dell’amore. Il lavoro del perdono, quando riesce, rompe il rapporto costitutivo tra l’Io e la violenza paranoico-narcisistica che lo anima. È un arretrare, un ritrarsi, un ridisegnare innanzitutto la propria immagine. È il gesto di Gesù di fronte all’adultera: chinarsi verso la terra, raccogliersi in sé, passare da una versione solo punitiva e vendicativa (colpevolizzante) della Legge a un’altra Legge che è la Legge della parola e dell’amore. Il perdono non trae mai la sua forza dai comportamenti di chi lo deve ricevere, da come, per esempio, l’altro può rimediare al suo sbaglio o riconoscersi pentito. Non è possibile perdonare chi è venuto meno alla promessa se non a partire da come il soggetto che ha subito l’offesa è in grado di rifondare un nuovo “Sì! ‘”, un nuovo inizio; può volere ancora l’amore per sempre, può ancora riconoscergli il suo valore “inestimabile”. Questo significa attraversare non tanto la colpa dell’Altro, ma la propria mancanza. Il lavoro del perdono è innanzitutto un attraversamento estremo della propria immagine ideale sino a vederne il limite reale. L’incontro con questo limite, come accade anche nel lavoro del lutto, alleggerisce, salva, toglie il peso della colpa, libera dallo spirito di vendetta. Esiste infatti una gioia misteriosa del perdono che alleggerisce gli amanti che la sanno raggiungere. Essa comporta il riconoscimento dell’Altro come eteros, come vita differente, vita lontana da ogni illusione simbiotico-narcisistica, da ogni fusione tra l’Uno e l’Altro. Comporta l’amore per un Altro reale, non-ideale, non ridotto al riflesso di uno specchio che illumina e arricchisce il nostro Io, ma una esistenza singolare che esiste come pura esteriorità. L’amore oblativo come pura dedizione all’Altro, nell’inseguimento di una fusione impossibile, lascia allora il posto all’oscillazione perpetua che caretterizza il lavoro del perdono tra l’esperienza della frammentazione del mio essere e il riconoscimento del carattere inassimilabile di chi amo. Come se nel tradimento risuonasse quel margine insopprimibile di libertà che l’illusione dell’amore vorrebbe fosse prigioniera e che invece si rivela come assoluta.

M. Recalcati, Non è più come prima, 128

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la conquista della scrittura

Se si vuol mettere in relazione l’apparire della scrittura con certi tratti caratteristici della civiltà, bisogna cercare in un’altra direzione. Il solo fenomeno che l’abbia fedelmente accompagnata è la formazione delle città e degli imperi, cioè l’integrazione in un sistema politico di un numero considerevole di individui e la loro gerarchizzazione in caste e in classi. Tale è, in ogni caso, l’evoluzione tipica alla quale si assiste, dall’Egitto fino alla Cina, nel momento in cui la scrittura fa la sua apparizione: essa sembra favorire lo sfruttamento degli uomini prima di illuminarli. Questo sfruttamento, che permetteva di raccogliere migliaia di lavoratori per costringerli a compiti estenuanti, meglio della relazione diretta considerata testé. Se la mia ipotesi è esatta, bisogna ammettere che la funzione primaria della comunicazione scritta è di facilitare l’asservimento. L’impiego della scrittura a fini disinteressati, in vista di trarne soddisfazioni intellettuali ed estetiche, è un risultato secondario, se pure non si riduce più spesso a un mezzo per rafforzare, giustificare e dissimulare l’altro.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 252

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Compiacenti

Non ci sono al mondo persone piú volgari dei nostri complici. L’occhiata obliqua dell’oste che mi riserva il vino migliore, e per conseguenza ne priva qualcun altro, bastava già, nei giorni della mia giovinezza, a ispirarmi un profondo disgusto per gli svaghi di Roma. Non mi piace che un essere umano ritenga di conoscer già il mio desiderio, prevederlo, adattarsi meccanicamente a quella che suppone la mia scelta: l’immagine bassa e deforme di me stesso, che mi offre un altro in quei momenti, mi farebbe preferire i tristi effetti dell’ascetismo. 

M.Yourcenar, Memorie di Adriano, 17

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La gamba di Achab

Con le sue tre lance sfondate intorno e uomini e remi turbinanti nei gorghi, un capitano, afferrando dalla prora spaccata il coltello della lenza, s’era lanciato sulla balena, come un duellista dell’Arkansas sull’avversario, ciecamente tentando con una lama di sei pollici di raggiungere la vitalità, profonda una tesa, del mostro. Quel capitano era Achab. E fu allora che, passandogli sotto di colpo la sua mandibola falcata, Moby Dick gli aveva falciato la gamba, come un mietitore fa di uno stelo d’erba in un campo. Nessun turco dal turbante, nessun prezzolato veneziano o malese avrebbe potuto colpirlo con più apparente malvagità. Poco c’era quindi da dubitare che sempre, fin dal giorno di quell’incontro quasi fatale, Achab avesse nutrito un feroce desiderio di vendetta, tanto più accanito dacché nella sua insensata morbosità era infine giunto a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale.

H.Melville, Moby Dick, XLI

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Normale: l’aggettivo subdolo

Ci furono uomini, alcuni, pochi, che si rifiutarono di uccidere dei civili. Non vennero fucilati per questo, non vennero degradati, non vennero nemmeno portati davanti a un tribunale militare. Alcuni, pochi, hanno detto di no, come documenta Browning nel suo libro, ma non erano gli uomini normali

U.Timm, Come mio fratello, 125

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Ammonimento

 «Ora asciugati gli occhi, direbbe, e smetti di piangere: tu non hai mai sfruttato le gioie che offriva la vita 
mancava sempre qualcosa, sprezzavi quello che avevi, 
e così l’esistenza è sempre rimasta in sospeso 
solo per non ricordare che avrebbe dovuto finire: 
ed ora non sai persuaderti che è giunto il momento. 
Devi lasciare i tuoi beni, a cui non hai più diritto, 
e ad altri il tuo posto nel mondo, è ora di andarsene». 
Ciò la Natura direbbe, con meritato rimprovero 
perché la legge comanda che i vecchi cedano il posto 
a qualcuno più giovane, e tutto va rinnovato.

Lucrezio, De rerum natura, III, 955

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Il persuasore

Non è  stato troppo difficile. Credevo di trovarne almeno uno caparbio, ma il mio cerchio dentato s’adatta a tutte le loro varie ruote e li fa andare. O, se preferiscono, mi stanno tutti innanzi come tanti mucchietti di polvere e io sono la miccia. Dura cosa, che per dar fuoco agli altri anche la miccia debba distruggersi! Ciò ch’io ho osato l’ho voluto; e ciò che ho voluto, farò! Essi mi credono pazzo, Starbuck almeno: ma io sono demoniaco, sono la pazzia impazzita! Quella fiera pazzia che è soltanto calma per comprendere se stessa!

H.Melville, Moby Dick, XXXVII

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Clima da dopoguerra

Era una generazione non soltanto ferita ma anche malata e che aveva rimosso il suo trauma in una chiassosa ricostruzione. I fatti scomparivano negli stereotipi: Hitler, il criminale. La lingua subiva l’aperta violenza non solo degli autori dei crimini, ma anche di chi parlando di sé diceva ce la siamo cavata anche stavolta. In questo modo ghermivano per sé un ruolo di vittime. 

U.Timm, Come mio fratello, 95

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La nuova vita di Carla

Addio strade, quartiere deserto percorso dalla pioggia come da un esercito, ville addormentate nei loro giardini umidi, lunghi viali alberati, e parchi in tumulto; addio quartiere alto e ricco: immobile al suo posto al fianco di Leo, Carla guardava con stupore la pioggia violenta lacrimare sul parabrise e in questi fiotti intermittenti colar disciolte sul vetro tutte le luci della città, girandole e fanali.

A. Moravia, Gli indifferenti, 151

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A capo di uomini

lo spirito indigeno è cosciente di quel fenomeno che ho già sottolineato, cioè che il capo appare come la causa del desiderio del gruppo di costituirsi come tale, e non come l’effetto del bisogno di una autorità centrale, sentito da un gruppo già costituito. Il prestigio personale e la capacità di ispirare confidenza sono i fondamenti del potere nella società nambikwara. Entrambi sono indispensabili a colui che diverrà la guida di questa avventurosa esperienza: la vita nomade nella stagione secca.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 261

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