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Le favole per gli adulti

Non è soltanto per ingannare i nostri bambini che vogliamo che continuino a credere a Babbo Natale: il loro fervore ci riscalda, ci aiuta a ingannare noi stessi e a credere, poiché essi ci credono, che un mondo di generosità senza contropartita è compatibile con la realtà.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 23

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La scomparsa dei miti

Il folletto Yohsi era di una pasta meno eterea. Somigliava a un uomo e in casa sua teneva donne e bambini. Era trasparente ma non invisibile e passando sulla neve più soffice poteva lasciare – ma non sempre – una qualche sorta di impronta. Spezzava e raccoglieva rami secchi e pezzi di legna da ardere a cui non sapeva dare fuoco. Il più delle volte appariva ai cacciatori solitari che passavano la notte accanto al falò. Quando il cacciatore dormiva, Yohsi arrivava per agitare le fiamme con il suo lungo dito medio. Quando i ciocchi ardenti si smorzavano, il cacciatore si destava di soprassalto, per trovarsi Yohsi seduto di fronte. Il folletto poteva volar via o svanire all’istante, ma anche restare li a lungo, seminando il terrore in chi gli sedeva dirimpetto. Circolavano storie di nomadi solitari trovati morti e orribilmente mutilati, evidentemente da Yohsi, nel posto che avevano scelto per passare la notte. Una volta mi trovavo in viaggio con due ona. Dopo essere scesi dai monti sul finire del giorno, ci eravamo accampati nella boscaglia vicino al livello superiore della vegetazione, quando un secco spezzarsi di rami nell’aria gelida avvisò i miei compagni della presenza di Yohsi. Erano evidentemente agitati e quando commisi la sciocchezza di farmi beffe della loro superstizione, uno dei due mi rimproverò dicendo che se fossi stato da solo e mi fossi trovato con Yohsi seduto davanti dall’altra parte del fuoco, non sarei stato cosi coraggioso. Per qualche ignota ragione il numero degli yohsi aveva subito un forte calo prima ancora dell’arrivo dell’uomo bianco, e ora si trovavano solo nelle zone piú squallide e inaccessibili del paese.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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Le ombre degli Ona e la paura della fotografia

È difficile descrivere il concetto che gli ona avevano del mehn. Sebbene io non abbia mai sentito usare questo termine nel senso di qualcosa di vivo o di qualcosa di immaginario, avrebbe potuto facilmente racchiudere entrambi i significati. Era sia una chimera sia un’entità – o meglio, un numero infinito di entità. Mehn poteva essere l’ombra di un uomo stagliata sul terreno, o il suo riflesso in un lago o in uno specchio; oppure un qualcosa di vago che si librava tra gli alberi della foresta, leggero come il piú tenue degli anelli di fumo; o come quelle ombre impalpabili che si vedono nei giorni senza sole, o come un tremore appena percepibile. Il mehn poteva far sorgere la premonizione di un pericolo o avvisare di un’imminente sciagura. Forse è capitato anche a qualche uomo civilizzato, e in particolare a chi andava a caccia da solo, di avvertire la presenza del mehn, anche se poi si sarà ben guardato dal raccontarlo in giro, per paura di sentirsi dare del povero matto. Quando un ona moriva, spirava anche il suo mehn. Nessuno ha mai chiesto o immaginato dove fosse andato a finire, non piú di quanto si chiedessero o immaginassero che cosa fosse successo all’aria dell’ultimo respiro. Il mehn di un uomo poteva abbandonarlo ed entrare nella sua ombra o nel suo riflesso sull’acqua o sul vetro, ma nessuno poteva portarlo via; ritornava da lui e l’uomo non perdeva niente. Quando nella terra degli ona apparvero le prime macchine fotografiche, i nativi nei primi tempi non gradivano essere fotografati. La loro obiezione era che alcuni dei loro mehn potevano essere portati via e, una volta trasferiti sulla carta, restarvi prigionieri per sempre.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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La strega Heuhupen

Molte montagne delle terre ona, in particolare quelle isolate rispetto al massiccio principale, sono state in tempi remoti esseri umani e perciò vanno trattate con rispetto. Così voleva la leggenda ona. Segnarle a dito era considerato molto sconveniente. La sfrontatezza del gesto poteva indurle ad avvolgersi di nubi e scatenare il maltempo. Una di queste montagne era Heuhupen, l’altopiano che un tempo era stato una strega.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XXX

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Paloa

Paloa era un indiano tranquillo, piccoletto e di mezza età, originario dell’estremo Nord della grande foresta. Stava attraversando un campo aperto insieme con suo fratello, alcune donne e dei bambini, quando da una valle laterale vide uscire una piccola pattuglia di polizia a cavallo.
Gli ona, dovunque si trovassero, non perdevano mai di vista il punto più vicino in cui nascondersi in caso di necessità. Poteva essere un bosco, un folto d’alberi o il letto d’un fiume. Per Paloa fu una grotta sulla sommità rocciosa di una collina. La raggiunse rapidamente con tutto il suo gruppetto e, aiutato dal fratello, fece nascondere le donne e i bambini in quello che era di fatto un pozzo asciutto con una stretta apertura da cui si vedeva il cielo. I due uomini rimasero sulla soglia, nascosti tra le rocce, ma con una buona visuale sul terreno circostante. Avevano entrambi gli archi e frecce in abbondanza, ma il fratello non poteva essere di grande aiuto come tiratore per via di una ferita al braccio. Quando gli uomini a cavallo si avvicinarono, Paloa scoccò una freccia e ferì un poliziotto. Il terreno era molto impervio per i cavalli, per cui i bianchi, convinti che tra le rocce fossero in agguato to molti indiani, non osarono smontare. Fecero fuoco restando in sella.
Un cacciatore ona in agguato dietro a una roccia tiene sempre la testa ben indietro, in modo da esporre soltanto naso e sopracciglia alla vista della preda, lasciando celati la fronte e i capelli. Paloa lo sapeva, ma la parte superiore dell’arco doveva spuntare al di sopra del suo riparo se voleva scoccare una freccia. Gli spari della polizia, a causa dell’agitazione delle cavalcature, andarono a casaccio, ma un colpo fortunato scheggiò l’impugnatura di Paloa appena sopra a dove teneva la mano, che rimase ferita, seppur lievemente. Il fratello gli passò il suo arco e Paloa continuò per un po’ a scagliare frecce fino a quando il nemico si ritirò sconcertato. I poliziotti tornarono all’attacco il giorno dopo con molti rinforzi, ma gli uccelli avevano lasciato il nido. Con il favore delle tenebre Paloa e i suoi erano fuggiti nella foresta.
Ho sentito la storia di Paloa una notte attorno a un fuoco. Il racconto era frammisto a battute e risate. Ebbi modo di ascoltare anche l’altro lato della storia. In questa seconda versione, nascosto tra le rocce non c’era più un solo arciere, ma una ventina di ona dei boschi. E con il passare del tempo il numero dei guerrieri indiani salì a «quasi cento».

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XXIX

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Fine del dominio delle donne Ona

Ai tempi in cui l’intera foresta era sempre verde, prima che il parrocchetto Kerrhprrh ne tingesse le foglie con il rosso del suo petto, e prima che i giganti Kwonyipe e Chashkilchesh percorressero i boschi svettando con le loro teste sulle cime degli alberi, ai tempi quindi in cui Krren (il sole) e Kreeh (la luna) camminavano sulla terra come marito e moglie e molte delle grandi montagne addormentate erano esseri umani, nella terra degli ona soltanto le donne conoscevano la stregoneria. Avevano anche una loro Loggia, a cui nessun uomo osava avvicinarsi, e le ragazze alle soglie della pubertà, istruite nelle arti magiche, imparavano come attirare le malattie e persino la morte su chiunque non garbasse loro.
Gli uomini vivevano in un abietto stato di timore e sottomissione. È vero, avevano gli archi e le frecce con cui rifornivano di carne l’accampamento, ma a che servivano queste armi, dicevano, contro magia e malattia? La tirannia delle donne divenne sempre piú dura finché agli uomini venne un giorno in mente che una strega morta era meno pericolosa di una strega viva. Si accordarono in segreto per uccidere tutte le donne; ne seguì un enorme massacro, dal quale nessuna donna in forma umana trovò scampo.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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Egemonia delle donne

Al pari di molte altre tribù indigene, anche gli yahgan credevano che in passato fossero state le donne a governare, con le arti dell’astuzia e della stregoneria. Stando alla storia yahgan, non era da molto che gli uomini avevano assunto il potere. Il passaggio delle consegne era avvenuto a quanto sembra con mutuo consenso; non c’è traccia di un massacro di donne su vasta scala come quello descritto dai miti degli ona. Non lontano da Ushuaia sono ben visibili i resti di quello che un tempo fu un ampio villaggio, nel quale, si racconta, ebbe luogo una grande assemblea di nativi. Non si era mai vista, né mai si vide più, una simile affluenza di persone, con canoe che arrivavano fin dalle frontiere più lontane della terra degli yahgan. Fu in quel memorabile convegno che gli uomini yahgan decisero di prendere l’autorità nelle proprie mani. Questa leggenda sulla fine più o meno violenta dell’egemonia femminile ha una tale diffusione in tutto il mondo da non poter essere presa alla leggera.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XVI

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Storie

Con l’andare del tempo, i piccoli tasselli di conoscenza relativi ad una regione si accumulano tra i residenti locali sotto forma di storie. Queste vengono ricordate dalla comunità; ciò che è insolito non va perduto. Tali racconti esprimono per un indigeno una visione complessa e a lungo termine d’un particolare paesaggio. E le storie vengono corroborate quotidianamente, così come vengono elaborate dai membri della comunità che viaggiano tra quanto è veramente noto e quanto è soltanto immaginato o insospettato. Al di fuori della regione è difficile incontrare questa “realtà” complessa ma facilmente comunicata senza ridurla a generalità, ad astrazioni fuorvianti o imprecise.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 269.

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Racconti e miti

Erodoto era figlio della sua cultura e del clima propizio all’uomo che le aveva fatto da culla. Era una cultura delle grandi tavole imbandite, dove ci si siede in gruppo nelle calde sere estive a mangiare olive e formaggio, bere vino fresco e chiacchierare. Uno spazio non racchiuso da mura ma aperto sul mare o su un pendio montano, atto a sviluppare l’immaginazione. Un incontro durante il quale i narratori hanno l’occasione di esibirsi in gare improvvisate dove primeggia chi riesce a riferire la storia più interessante o gli episodi più insoliti. Qui la realtà si mescola alla fantasia, i tempi e i luoghi si confondono, nascono le leggende, sorgono i miti.

Ryszard Kapuscinski, In viaggio con Erodoto, pag. 165.

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Verso casa II

Tuttavia la lunga tendenza dell’evoluzione puramente biologica suggerisce fortemente l’inevitabilità di una profonda collisione tra la volontà umana e gli aspetti immutabili dell’ordine naturale. Questa sembra di per sé una ragione sufficiente per indagare tra le culture aborigene sulla natura del tempo, dello spazio e di altre dicotomie inventate; la relazione tra la speranza e l’esercizio della volontà; il ruolo dei sogni e dei miti nella vita umana; e gli aspetti terapeutici di una lunga intimità con un paesaggio.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 392.

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