Archivi del mese: aprile 2013

Il 25 aprile.

Dal giorno della liberazione – quel sospirato 25 aprile – tutto era andato sempre peggio. In quei giorni sì che s’era fatto qualcosa. Se anche i mezzadri e i miserabili del paese non andavano loro per il mondo, nell’anno della guerra era venuto il mondo a svegliarli. C’era stata gente di tutte le parti, meridionali, toscani, cittadini, studenti, sfollati, operai – perfino i tedeschi, perfino i fascisti eran serviti a qualcosa, avevano aperto gli occhi ai più tonti, costretto tutti a mostrarsi per quello che erano, io di qua tu di là, tu per sfruttare il contadino, io perché abbiate un avvenire anche voi. E i renitenti, gli sbandati, avevano fatto vedere al governo dei signori che non basta la voglia per mettersi in guerra. Si capisce, in tutto quel quarantotto s’era fatto anche del male, s’era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti: sempre meno-disse Nuto – della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada o fatto crepare.

C. Pavese, La luna e i falò, Cap XIII

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Prediche del dopoguerra

E così la domenica si fece il funerale. Le autorità, i carabinieri, le donne velate, le Figlie di Maria. Quel diavolo fece venire anche i Battuti, in casacca gialla, uno strazio. Fiori da tutte le parti. La maestra, padrona di vigne, aveva mandato in giro le bambine a saccheggiare i giardini. Il parroco, parato a festa, con gli occhiali lucidi, fece il discorso sui gradini della chiesa. Cose grosse. Disse che i tempi erano stati diabolici, che le anime correvano pericolo. Che troppo sangue era stato sparso e troppi giovani ascoltavano ancora la parola dell’odio. Che la patria, la famiglia, la religione erano tuttora minacciate. Il rosso, il bel colore dei martiri, era diventato l’insegna dell’Anticristo, e in suo nome s’erano commessi e si commettevano tanti delitti. Bisognava pentirci anche noi, purificarci, riparare – dar sepoltura cristiana a quei due giovani ignoti, barbaramente trucidati – fatti fuori, Dio sa, senza il conforto dei sacramenti – per riparare, pregare per loro, drizzare una barriera di cuori. Disse anche una parola in latino. Farla vedere ai senzapatria, ai violenti, ai senza dio. Non credessero che l’avversario fosse sconfitto. In troppi comuni d’Italia ostentava ancora la sua rossa bandiera…

C. Pavese, La luna e i falò, Cap XII

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La valle nelle ossa

Che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnio di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte.

C. Pavese, La luna e i falò, Cap X

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di | aprile 26, 2013 · 10:53 PM

Le voci e gli odori del passato

Era strano come tutte fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora.

C. Pavese, La luna e i falò, Cap VI

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Il paese e il mondo

Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto.

C. Pavese, La luna e i falò, Cap I

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Mettere radici, farsi terra e paese

C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “ecco cosa ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del Duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perchè la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

C. Pavese, La luna e i falò, Cap I

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