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Volteggiando sull’altipiano

Volavamo nel sole, ma il versante della collina era immerso in una bruna ombra trasparente in cui ben presto ci tuffammo anche noi. Improvvisamente, dall’alto, li scorsi. Erano ventisette bufali; stavano pascolando su uno di quei verdi crinali che corrono lungo i fianchi della collina per ricongiungersi sulla vetta come le pieghe di un vestito. Dapprincipio, lontanissimi, sotto di noi,
parevano topi che si muovessero con cautela sul pavimento di una stanza. Calammo rapidamente, volteggiando in lungo e in largo sul crinale, fino ad appena cinquanta metri di altezza. Ci
trovavamo ormai a un tiro di schioppo: potevamo contarli, mentre in gran quiete si ricongiungevano al branco o se ne distaccavano. Ve n’ara uno vecchissimo, grande e nero, e altri piú giovani e giovanissimi. Tutt’intorno, cespugli proteggevano l’ampio pascolo erboso; se qualcuno si fosse avvicinato da terra ne avrebbero inteso il rumore o fiutato l’odore, ma non si aspettavano un attacco dall’aria. Dovevamo continuare a volteggiare sopra di loro. Sorpresi dal fracasso del motore cessarono di pascolare; ma pareva non avessero l’istinto di guardare in alto. Si accorsero, alla fine, che stava avvenendo qualcosa di molto strano; il vecchio bufalo dette il via e tutto il branco lo seguì. Le quattro zampe piantare per terra, alzò le corna – dovevano pesare almeno mezzo quintale – sfidando il nemico nascosto. Poi, d’improvviso, si slanciò; prima trottando, poi addirittura al galoppo. Tutto il clan lo seguí, correndo all’impazzata. Andarono ad ingolfarsi fra i cespugli, sollevando un nugolo di polvere e di sassi.
Arrivati nel folto si fermarono, radunandosi tutti insieme: parevano un pavimento di pietre grigie, in una radura fra le colline. Lì si credevano al riparo e lo erano, per ogni minaccia venuta dalla terra, ma non potevano sfuggire allo sguardo dell’uccello dell’aria. Prendemmo quota e ci allontanammo.

K. Blixen, La mia Africa, parte III, 8

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L’Africa se ne va via

L’apparizione dei vecchi danzatori fu uno spettacolo raro e sublime. Saranno stati un centinaio. Giunsero tutti insieme: dovevano essersi raccolti prima in un posto vicino. I vecchi indigeni, sempre freddolosi, son di solito imbacuccati di pelli e coperte; ma quella volta erano nudi, come per affermare solennemente la formidabile verità. Si erano ornai e dipinti con discrezione, ma alcuni portavano, sul vecchio cranio calvo, le grandi acconciature di penne d’aquila dei giovani danzatori. Non avevano bisogno di ornamenti: la loro figura si imponeva da sola. Non cercavano, come le vecchie beltà delle sale da ballo europee, di darsi per forza un aspetto giovanile; anzi, per loro e per gli spettatori, il significato e l’importanza di quel tipo di Ngoma consiste proprio nella vecchiaia dei danzatori. Strane striature di gesso, come non ne avevo mai viste, percorrevano le membra deformate in tutta la loro lunghezza, quasi ad accentuare, con inflessibile sincerità, la curva delle ossa irrigidite e fragili sotto la pelle. I vecchi avanzavano lenti, a tempo, in una sorta di preludio, con dei movimenti tanto strani che mi chiesi a quale danza avrei mai assistito.
Guardandoli mi tornò in mente un’idea che già avevo avuto altre volte: non ero io ad andarmene, io non avevo il potere di lasciare l’Africa, ma era l’Africa che lentamente, gravemente si ritirava da me, come il mare nella bassa marea. Quelli che stavano passando in processione erano i miei forti e muscolosi giovani danzatori di ieri e di avantieri; avvizzivano sotto i miei occhi, e se ne andavano per sempre. Se ne andavano nel loro stile, gentilmente, con una danza; s’eran trovati bene con me, com’io con loro.

K. Blixen, Lamia Africa, parte IV, 5

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L’arte di ascoltare

Ora i gusti sono mutati, si è perduta l’arte dell’ascoltare, in Europa. Gli africani la posseggono ancora perché non sanno leggere. Appena principi a dire: “un tale camminava nella pianura e incontrò un altro”, subito pendono dalle tue labbra, subito la loro fantasia insegue con slancio la pista sconosciuta dei due uomini sulla pianura. Ma i bianchi non sono più capaci di prestar orecchio a un racconto, nemmeno se sentono che è loro dovere. Divengono irrequieti, si ricordano di mille incombenze da sbrigare proprio in quel momento; se, addirittura, non si addormentano. Le stesse persone, invece, son capaci di cercare qualcosa da leggere e di trascorrere tutta la sera immerse nella lettura di un qualsiasi pezzo di carta stampata. Riescono persino a leggere i discorsi. È l’abitudine di cogliere le cose solo con gli occhi.

K. Blixen, La mia Africa, parte III, cap. 8

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Lezioni di silenzio per fotografi

In mezzo alla natura selvaggia avevo imparato a guardarmi dai movimenti bruschi. Le creature che si incontrano là sono ombrose e guardinghe; sanno cogliere di sorpresa, sfuggire quando meno ci si aspetta. Un animale domestico sarebbe incapace di stare quieto come un animale selvaggio. Gli uomini civilizzati non sanno più cos’è la vera calma, e devono prendere lezioni di silenzio dal mondo selvaggio, prima che quel mondo li accetti. L’arte di muoversi con delicatezza, senza scatti improvvisi, è la prima arte del cacciatore, soprattutto del cacciatore con la macchina fotografica.

K. Blixen, La mia Africa, part I,1

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Verso lo zoo

Nel porto era ancorato un rugginoso cargo a vapore, che stava per tornare in patria. Andando all’isola e tornandone con la barca a remi di Ali bon Salim, guidata da rematori suaheli, vi passai vicino due volte. Sul ponte scorsi una grande cassa di legno da cui sporgevano le teste di due giraffe. Venivano dall’Africa Orientale Portoghese, mi disse Farah, che era salito a bordo, e sarebbero state condotte in un serraglio ambulante di Amburgo.
Volgevano di qua e di là la testa delicata: parevano sorprese; e avevano buone ragioni per esserlo. Non avevano mai visto il mare. Dovevano avere appena lo spazio per stare in piedi, in quella cassa stretta. Il mondo intorno a loro, all’improvviso, s’era mutato, rattrappito, chiuso.
Non conoscevano né potevano immaginare la degradazione che le aspettava. Creature orgogliose e innocenti, miti animali delle grandi pianure, dal passo elegante, erano ignare della cattività, del freddo, del tanfo, del fumo, della scabbia e dell’atroce noia di un mondo in cui non succede mai nulla.
Gente dagli abiti scuri e maleodoranti verrà, dal vento e dal nevischio delle strade, a guardarle e a compiacersi della superiorità dell’uorno sul mondo privato del dono della parola. Quando la testa piena di grazia, paziente, dagli occhi fumosi, sporgerà dalla cancellata dello zoo, si mostreranno a vicenda, ridendo, il lungo collo sottile: ché, là dentro, sembrerà veramente troppo lungo. I bambini piangeranno spaventati, oppure invece si innamoreranno e offriranno alle giraffe un pezzo di pane. I genitori penseranno che le giraffe sono animali gentili e che loro le trattano bene.
Rammenteranno mai, le giraffe, nei lunghi anni che le attendono, il paese perduto? Dove, dove sono scomparsi i prati, gli spineti, i fiumi, gli stagni, le montagne azzurrine?, si chiederanno.
La dolce aria alta sulle pianure si è sollevata e ritratta. Dove sono le altre giraffe, che correvano al loro fianco nelle lunghe galoppate sulla terra ondulata? Le hanno abbandonate, dileguandosi tutte quante; chissà se torneranno mai piú.
Dov’è la luna piena, la notte?
Le giraffe si agitano e si destano, nella carovana del serraglio, nella gabbia stretta odorante di paglia fradicia e di birra.
Addio, addio. Vorrei poteste morire durante il viaggio, tutte e due, perché la vostra piccola testa piena di nobiltà, che ora si tende, sorpresa, dall’orlo della cassa, contro il cielo azzurro di Mombasa, non debba voltarsi vanamente da tutti i lati, ad Amburgo, dove l’Africa è ignota.
Quanto a noi, dovremo trovare qualcuno che ci faccia veramente del male, prima di poter in coscienza chiedere perdono alle giraffe per il male che facciamo loro.

K. Blixen , La mia Africa, parte IV, 1

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Emmanuelson e i Masai

Era giusto, pensai, che Emmanuelson avesse chiesto rifugio ai Masai, e che essi lo avessero accolto. Solo i veri aristocratici e i veri proletari del mondo capiscono la tragedia. Per loro è il principio fondamentale di Dio, e la chiave – minore – dell’esistenza. In questo sono diversi dai borghesi di tutte le categorie, che non solo negano la tragedia ma sono incapaci di sopportarla; la parola stessa, per loro, significa qualcosa di tristo. Molti malintesi fra gli immigrati bianchi di classe media e gli indigeni nascono proprio da questo. Gli intrattabili Masai, aristocratici e proletari insieme, avranno riconosciuto subito un personaggio da tragedia nel solitario viandante vestito di nero; e, accanto a loro, l’attore tragico era ridiventato se stesso.

K. Blixen, La mia Africa, parte III, cap. 5

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Stregoneria

I vecchi Masai provan solo sfiducia o quasi vergogna per ogni ordigno che si muova da solo, senza apparente intervento dell’uomo o delle forze della Natura. La stregoneria, per la mente umana, ha qualcosa d’indecente: ed essa ne distoglie lo sguardo. Pur non potendo ignorarne gli effetti, preferisce non sapere nemmeno come avvenga; nessuno ha mai tentato di strappare ad una strega la ricetta dei suoi infusi.

K. Blixen, La mia Africa, parte III, 8

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Sponde africane

La costa, sotto la casa, era tutta sforacchiata da caverne e grotte profonde, dove si poteva sedere all’ombra a guardare l’acqua azzurra, scintillante in lontananza. Con l’alta marea l’acqua riempiva le grotte giungendo fino al livello della casa; nella porosa roccia corallifera, il mare cantava e sospirava in modo strano, come se la terra, sotto di noi, fosse viva. Le lunghe ondate si lanciavano nella baia, come un esercito all’assalto.
Trascorsi qualche giorno a Takaunga durante la luna piena: la bellezza delle notti radiose e quiete era cosí perfetta da spezzare il cuore. Si dormiva con la porta aperta sul mare argentato; la tiepida brezza giocherellona soffiava con un basso mormorio lievi folate di sabbia sul pavimento di pietra. Una notte un gruppo di dhows arabi passò lungo la costa, correndo silenziosamente davanti al monsone; parevano una fila d’ombre di vele brune, sotto la luna.

K. Blixen, La mia Africa, cap. 7

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Masai na-kudja

D’un tratto, una grande eccitazione si propagò fra i ballerini, un moto profondo di sorpresa e di paura, un fruscio curioso, come quando il vento corre fra i giunchi. Il ballo diventava sempre piú lento, sempre piú lento, ma continuava. Chiesi ad uno dei vecchi cosa stesse succedendo. Mi rispose in fretta, a bassa voce: “Masai na-kudja” – arrivano i Masai.
Lí per lí non accadde nulla. La notizia, evidentemente, era stata portata da un messaggero, e i kikuyu l’avevano rimandato indietro a dire che erano pronti a ricevere gli ospiti. La legge
proibiva ai Masai di intervenire alle Ngomas kikuyu; ogni volta che vi avevano partecipato avevano provocato troppi guai. I ragazzi di fattoria si raccolsero intorno a me, tutti guardavano verso la strada. All’apparir dei Masai la danza cessò del tutto.
Erano dodici giovani guerrieri; fatto qualche passo si fermarono, in attesa, senza guardare né a destra né a sinistra, sbatte vano appena le palpebre verso il fuoco. Tranne le armi e le magnifiche acconciature del capo, erano nudi. Uno portava la testa di leone che il guerriero Morano porta in guerra. Dal ginocchio al piede avevano dipinta una larga striscia scarlatta, come gli scorresse il gangue lungo la gamba. Stavano eretti, le gambe rigide, il capi all’indietro, silenziosi e mortalmente gravi, nell’atteggiamento allo stesso tempo del conquistatore e del prigioniero. Si aveva la sensazione che fossero venuti alla Ngoma contro la loro stessa volontà. Il suono monotono dei tamburi, martellando senza tregua, aveva passato il flume ed era giunto fino alla riserva, turbando il cuore dei giovani guerrieri: dodici di loro non avevano potuto resistere al richiamo.

K. Blixen, La mia Africa, cap. 2

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Incontri

Stavamo mangiando quando comparve uno gruppo di guerrieri masai che avanzò rapidamente verso di noi. Probabilmente, dopo aver spiato l’apparecchio di lontano, avevano voluto vedere di che si trattasse; i masai sono capaci di camminare per ore anche in una terra così ostile. Venivano avanti in fila indiana, nudi, alti e sottili, con le armi scintillanti; scuri come la torba sulla sabbia giallo-grigia, accompagnati dalle piccole gore e delle loro ombre, le uniche ombre visibili all’orizzonte oltre alle nostre. Giunti a pochi passi, si schierarono davanti a noi: erano in cinque. Con le teste accostate, cominciarono a parlottare fra loro dell’aeroplano e di noi. Una generazione prima l’incontro ci sarebbe stato fatale. Uno di loro, finalmente, si fece avanti e disse qualcosa. Sapevamo ben poco di masai e loro non parlavano altra lingua; la conversazione morì subito. Il guerriero tornò fra i suoi compagni. Di lì a pochi istanti, voltandoci le spalle, si misero in cammino, in fila indiana, verso la vasta, bianca distesa di sale bruciante.

K. Blixen, La mia Africa, parte III, 8

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