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Come un ronzio di alveare

È difficile capire le origini delle civiltà americane senza ammettere l’ipotesi di una attività intensa, su tutte le coste del Pacifico — asiatico o americano — che si propagava di zona in zona, grazie alla navigazione costiera; e tutto ciò per diversi millenni. Noi rifiutavamo un tempo la dimensione storica all’America precolombiana, perché l’America postcolombiana ne era stata privata. Ci rimane forse da correggere un secondo errore, che consiste nel pensare che l’America sia rimasta per ventimila anni tagliata fuori dal mondo intero, come lo era stata dall’Europa occidentale. Tutto fa pensare piuttosto che al grande silenzio atlantico rispondesse, su tutto il contorno del Pacifico, un ronzio di alveare.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 213

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Decorazioni indigene

È proprio come se una civiltà intera aspirasse con tenerezza appassionata alle forme, alle sostanze e ai colori della vita; e, per trattenere intorno al corpo umano la sua più ricca essenza, si affidasse — fra tutti i suoi prodotti — a quelli che sono in più alto grado durevoli oppure fuggitivi, ma che, per una strana coincidenza, ne sono i depositari privilegiati.

C. Lévi-Strauss, 22

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Festa nella foresta

Questi straccioni, sperduti in fondo alla loro palude, offrivano uno spettacolo ben triste; ma il loro stesso abbrutimento rendeva più impressionante la tenacia con la quale avevano preservato certi aspetti del passato.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 19

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Evoluzioni morali

Il nostro ragionamento morale, come il nostro diritto, cambia incessantemente e con indefessa creatività. Ma, come il diritto, alcune nostre considerazioni morali risalgono alla notte dei tempi e presumibilmente non sono cambiate per buone ragioni: in parte per gli effetti della selezione di gruppo durante l’evoluzione e in parte per una consapevolezza lungamente acquisita della loro saggezza. Affermare che il nostro senso morale si evolve non significa invocare un cieco relativismo morale. E’ invece l’invito a rispettare la saggezza morale del passato; è una titubanza a modificare un antico patrimonio morale, ma con la flessibilità sufficiente per adattarsi a fatti nuovi.

Stuart Kauffman, Reinventare il sacro, pag. 284.

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Relativismi

«Perché siete così stupidi?» domandavano gli indigeni ai missionari. «E perché siamo stupidi?» rispondevano questi. «Perché non vi dipingete come fanno gli eyiguayegui». Bisognava dipingersi per essere uomini; colui che restava allo stato naturale non si distingueva dal bruto.

C-Lévi-Strauss, Tristi tropici, 20

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La scomparsa dei miti

Il folletto Yohsi era di una pasta meno eterea. Somigliava a un uomo e in casa sua teneva donne e bambini. Era trasparente ma non invisibile e passando sulla neve più soffice poteva lasciare – ma non sempre – una qualche sorta di impronta. Spezzava e raccoglieva rami secchi e pezzi di legna da ardere a cui non sapeva dare fuoco. Il più delle volte appariva ai cacciatori solitari che passavano la notte accanto al falò. Quando il cacciatore dormiva, Yohsi arrivava per agitare le fiamme con il suo lungo dito medio. Quando i ciocchi ardenti si smorzavano, il cacciatore si destava di soprassalto, per trovarsi Yohsi seduto di fronte. Il folletto poteva volar via o svanire all’istante, ma anche restare li a lungo, seminando il terrore in chi gli sedeva dirimpetto. Circolavano storie di nomadi solitari trovati morti e orribilmente mutilati, evidentemente da Yohsi, nel posto che avevano scelto per passare la notte. Una volta mi trovavo in viaggio con due ona. Dopo essere scesi dai monti sul finire del giorno, ci eravamo accampati nella boscaglia vicino al livello superiore della vegetazione, quando un secco spezzarsi di rami nell’aria gelida avvisò i miei compagni della presenza di Yohsi. Erano evidentemente agitati e quando commisi la sciocchezza di farmi beffe della loro superstizione, uno dei due mi rimproverò dicendo che se fossi stato da solo e mi fossi trovato con Yohsi seduto davanti dall’altra parte del fuoco, non sarei stato cosi coraggioso. Per qualche ignota ragione il numero degli yohsi aveva subito un forte calo prima ancora dell’arrivo dell’uomo bianco, e ora si trovavano solo nelle zone piú squallide e inaccessibili del paese.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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Le ombre degli Ona e la paura della fotografia

È difficile descrivere il concetto che gli ona avevano del mehn. Sebbene io non abbia mai sentito usare questo termine nel senso di qualcosa di vivo o di qualcosa di immaginario, avrebbe potuto facilmente racchiudere entrambi i significati. Era sia una chimera sia un’entità – o meglio, un numero infinito di entità. Mehn poteva essere l’ombra di un uomo stagliata sul terreno, o il suo riflesso in un lago o in uno specchio; oppure un qualcosa di vago che si librava tra gli alberi della foresta, leggero come il piú tenue degli anelli di fumo; o come quelle ombre impalpabili che si vedono nei giorni senza sole, o come un tremore appena percepibile. Il mehn poteva far sorgere la premonizione di un pericolo o avvisare di un’imminente sciagura. Forse è capitato anche a qualche uomo civilizzato, e in particolare a chi andava a caccia da solo, di avvertire la presenza del mehn, anche se poi si sarà ben guardato dal raccontarlo in giro, per paura di sentirsi dare del povero matto. Quando un ona moriva, spirava anche il suo mehn. Nessuno ha mai chiesto o immaginato dove fosse andato a finire, non piú di quanto si chiedessero o immaginassero che cosa fosse successo all’aria dell’ultimo respiro. Il mehn di un uomo poteva abbandonarlo ed entrare nella sua ombra o nel suo riflesso sull’acqua o sul vetro, ma nessuno poteva portarlo via; ritornava da lui e l’uomo non perdeva niente. Quando nella terra degli ona apparvero le prime macchine fotografiche, i nativi nei primi tempi non gradivano essere fotografati. La loro obiezione era che alcuni dei loro mehn potevano essere portati via e, una volta trasferiti sulla carta, restarvi prigionieri per sempre.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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Anima ovunque

Si ha bisogno di poco per vivere: poco spazio, poco nutrimento, poca gioia, pochi utensili e arnesi; è la vita in un fazzoletto. Viceversa, c’è anima ovunque. Lo si sente nel movimento della strada, nell’intensità degli sguardi, nella virulenza della più piccola discussione, e, al passaggio di uno straniero, nella cortesia dei sorrisi accompagnati spesso, nei paesi musulmani, da un salaam con la mano portata alla fronte. Come interpretare altrimenti la facilità con la quale questa gente prende posto nel cosmo? Ecco dunque la civiltà del tappeto da preghiera che rappresenta il mondo, o del quadrato disegnato per terra che definisce un luogo di culto. Ecco qui questi uomini, in piena strada, ognuno nell’universo della sua piccola bottega, placidi e intenti ognuno alla sua piccola industria, in mezzo alle mosche, ai passanti, al fracasso: barbieri, scrivani, parrucchieri, artigiani. Per poter resistere, è necessario un legame molto forte, molto personale, con il soprannaturale, e forse uno dei segreti dell’Islam, e degli altri culti di questa regione del mondo, è che ciascuno si sente incessantemente in presenza del suo Dio.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 15

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Gerarchie sociali

Gli ona non avevano capi, né ereditari né eletti, ma gli uomini dotati di maggiori qualità diventavano di fatto i leader dei rispettivi gruppi. Era però possibile che un giorno comandasse una persona e il giorno dopo un’altra, a seconda di chi aveva più voglia di intraprendere un determinato compito. Fu il gioviale Kankoat a dare, negli anni successivi, la miglior definizione del rango sociale tra gli ona. Un certo scienziato era venuto a visitare la nostra regione e, in risposta alle sue domande sull’argomento, gli avevo detto che gli ona non avevano capi nella nostra accezione del termine. Vedendo che non mi credeva, feci chiamare Kankoat, che a quell’epoca aveva imparato un po’ di spagnolo. Quando il nostro ospite ripeté la domanda, questi, troppo educato per rispondere sempli-cemente di no, disse: – Si, signore, noi ona abbiamo molti capi. Gli uomini sono tutti capitani e le donne tutte marinai.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XXIII

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Prima della civiltà

Gettando lo sguardo sulle interminabili file di colline boscose che si susseguivano lungo i sessantacinque chilometri di estensione del lago Kami, io e Talimeoat contemplammo per molto tempo e in silenzio un tramonto maestoso. Sapevo che il mio compagno stava frugando l’orizzonte alla ricerca di qualsiasi segnale di fumo da accampamenti amici o nemici. Dopo un po’ abbassò la guardia e, sdraiatosi accanto a me, parve dimenticare la mia presenza. Punto dal freddo della sera, stavo per proporgli di muoverci quando lo udii emettere un profondo sospiro e mormorare tra sé e sé, in quel modo sommesso con cui gli ona potevano pronunciare qualsiasi frase: – Yak haruin («La mia terra»).

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XXXV

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