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L’ombra della scienza

“La verità è bellezza, e la bellezza è verità”, ha scritto Keats. Se permettiamo a noi stessi di abbracciare l’umanità, Keats ci dimostra quanto siamo diventati stolti nella lunga ombra della scienza, di quella scienza che amo.

Stuart Kauffman, Reinventare il sacro, pag. 263.

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Einstein o Shakespeare?

Preferireste essere Einstein o Shakespeare? Non so quale dei due geni sia più grande. Io, titubante, arrivo a pensare che abbiamo bisogno sia della scienza sia della storia per dare un senso a un universo dove noi agenti, parte di questo universo, ce la caviamo grazie al nostro saper fare incarnato, guadagnando il nostro momento di gloria sulla scena.

Stuart Kauffman, Esplorazioni evolutive, pag. 156.

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Conoscenza

La scienza da sola non sa esprimere la ricchezza della vita, del significato e della conoscenza.

Stuart Kauffman, Reinventare il sacro, pag. 262.

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Un’apologia della retorica

In un mondo inconoscibile pienamente, e nel quale dobbiamo agire, diventa importante capire che la retorica, la capacità di esercitare la nostra saggezza nelle situazioni incerte della vita, è importante come la logica. La retorica non è un espediente verbale, ma è la persuasione al cospetto dell’incertezza rispetto alle necessità di agire. Non è un caso che la Retorica di Aristotele sia stata scritta quando Atene era una democrazia, dove era necessaria la persuasione in politica e nell’azione pratica. Ma la retorica e una parte pienamente legittima delle scienze umane e del resto delle sensibilità umane.
Allora, forse, la poesia e la saggezza poetica sono giuste e vere.

Stuart Kauffman, Reinventare il sacro, pag. 261.

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Il potere della poesia

Allora, la poesia è puro piacere? Solo stupore e sorpresa? Assolutamente no. La poesia sublime, come la sublime letteratura, è una lente attraverso cui vedere noi stessi, la nostra vita, il nostro mondo. Essa ci mostra la verità.

Stuart Kauffman, Reinventare il sacro, pag. 261.

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Ritratto dello snob

Del resto il comportamento dello snob è molto chiaro. Di per sé sterile, può affermare la sua singolarità solo dimostrando di partecipare a ciò che è singolare. Fa sua la singolarità degli altri e finge di capirla e apprezzarla. Fa così parte di un’accorta élite, in mezzo alla calca volgare e omogenea. Se poi dall’accoppiamento del non conformista con Io snob, può nascere un sistema commerciale, potranno abbinarsi il successo sociale, temporaneo per fortuna, e l’inserimento dell’artista, o supposto tale, nella scala consumatrice e gerarchica. Questo sarà tanto più facile, in quanto l’esperienza storica dimostra che l’innovatore è quasi sempre incompreso dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Di qui a pensare che ogni artista incompreso è un genio creatore, il passo è breve.

H. Laborit, Elogio della fuga, 47

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Arte e sociocultura

L’artista, fin dal concepimento, è per forza legato alla sociocultura presente nel tempo e nello spazio sociale. La fugge, ma ne rimane più o meno impregnato. Per quanto geniale, appartiene alla sua epoca, ed è la sintesi di coloro che lo hanno preceduto e la reazione alle abitudini culturali da essi imposte. E proprio nella reazione può trovare la sua originalità. Anche se questa è la ragione per cui l’arte può sembrare ambigua ai contemporanei. Il bisogno, che ognuno di noi ha, di essere ammirato, stimato, spinge l’artista all’anticonformismo. Rifiuta il « déjà vu », il « déjà entendu ». Questo è il prezzo della creazione e anche il prezzo dell’ammirazione che essa suscita. Ma l’opera originale si discosta allora dai criteri di riferimento con cui di solito viene giudicata e, dato che l’arte deve essere non oggettiva, deve mantener le distanze dalla sensazione, dal mondo della realtà, diventa difficilissimo dare di essa un giudizio immediato. L’arte, come la vendetta, è un piatto da consumare freddo. Solo l’imprevedibile evoluzione del gusto potrà in seguito consacrare il genio.

H. Laborit, elogio della fuga, 47

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Fuga nell’immaginazione

Il creatore deve essere motivato a creare. Per far questo deve, in generale, non trovare sufficiente gratificazione nella società a cui appartiene. Deve aver difficoltà a inserirsi in una scala gerarchica basata sulla produzione di beni di consumo. Poiché questa esige, da parte di chi vuole garantirsi la promozione sociale, una certa facoltà di adattamento all’astrazione fisica e matematica, molti, a cui manca questa facoltà di adattamento, disgustati però anche dalla forma « insignificante » che ha preso il lavoro manuale nella nostra epoca, si orientano verso le scienze umane e verso le attività artistiche, « culturali ». Ma queste scelte sono meno « remunerative » in una società definita produttiva, e offrono meno numerosi sbocchi. In compenso essendo praticamente impossibile giudicare il valore dell’opera, poiché il criterio di valutazione è mobile, affettivo, non logico, l’artista dispone di un vasto territorio in cui agire e soprattutto di una possibilità di consolazione narcisistica. Se non è stimato, non esistendo alcun criterio oggettivo valido che dimostri che hanno ragione gli altri, può sempre considerarsi incompreso. Vista sotto questo aspetto la creazione è una vera e propria fuga dalla vita quotidiana, una fuga dalle realtà sociali, dalle scale gerarchiche, una fuga nell’immaginazione.

H. Laborit, Elogio della fuga, 46

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La creatività

La creatività non è infatti una ricerca della comprensione, del perché e del come del mondo, e ogni scoperta non ci permette forse di strappare un lembo al sudario della morte? E questo non è forse il modo per capire che colui che si « guadagna » la vita senza di lei, la perde?

H. Laborit, Elogio della fuga, 41

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Educazione alla creatività

L’educazione alla creatività esige innanzi tutto l’ammissione che non vi sono certezze o almeno che esse sono sempre temporanee, efficaci a un dato istante dell’evoluzione, ma che si devono continuamente riscoprire col solo scopo di abbandonarle appena si sia potuto dimostrare il loro valore operativo. L’educazione che ho chiamato « relativista » mi sembra l’unica degna del cucciolo dell’Uomo. Certo non è «proficua» sul piano della promozione sociale, ma Rimbaud, Van Gogh o Einstein, per citare solo alcuni che oggi vengono riconosciuti geniali, hanno mai mirato alla promozione sociale? Questa educazione favorirebbe lo sviluppo dell’individualità, e ciò andrebbe a tutto vantaggio della collettività che sarebbe così formata da individui senza uniforme. Penso anche che solo questa educazione potrebbe portare alla tolleranza, perché intolleranza e settarismo sono sempre dovuti all’ignoranza e alla sottomissione incondizionata agli automatismi più primitivi, elevati al rango di etiche, di valori eterni e indiscutibili.

H. Laborit, Elogio della fuga, 56

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