Archivi del mese: novembre 2014

Il tradimento di se stessi

L’imperdonabile nella vita amorosa non sarebbe tanto il tradimento tenuto nascosto, ma il tradimento del proprio desiderio, il venire meno del soggetto alla sua Legge. La verità più profonda che la psicoanalisi ci insegna è, infatti, che non c’è tradimento se non del proprio desiderio. Per questa ragione, quando un amante persiste nell’inganno di se stesso, quando si allontana irreversibilmente dal proprio desiderio l’amore, fatalmente, non lo segue più.

M. Recalcati, Non è più come prima, 89

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Che cultura

In una società commerciale, esser colti significa appartenere a quella parte privilegiata della società che può permettersi di diventarlo. Concedere a coloro che non hanno questa fortuna di partecipare alla cultura è in qualche modo permettergli un’ascesa sociale. È un modo di gratificarli narcisisticamente, di migliorare il loro livello di vita, di arricchire l’immagine che di sé possono dare agli altri. È probabile che questo processo derivi direttamente dal rammarico del borghese di non appartenere a un’aristocrazia inutile, non produttiva e colta.

H. Laborit, Elogio della fuga, 48

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Oline nella latrina col pesce

e lei non può restare qui seduta sul bordo, dentro la casetta, perlomeno si sieda bene, pensa Oline, e no, mica può restare seduta così senza nemmeno tirare su le gonne, anche se Io sa che qualcosa di piccolo nelle mutande ormai ci è già arrivato, non può stare così lo stesso, pensa Oline, adesso deve prepararsi e sistemarsi come si deve sulla latrina, sì, ché mica può stare così seduta a guardare gli scarabocchi che ha fatto una volta Lars e quel pesce li che penzola e non dovrebbe stare lì appeso, bensì in cucina sul ripiano, senza le viscere e ben pulito in acqua fresca, e invece il pesce è lì appeso alla porta e poi gli occhioni di questo pesce! Oh come la fissano questi occhioni, rigidi e neri, senza luce la fissano gli occhi del pesce e riescono a vederla fino in fondo, sembrerebbe, pensa Oline, questi occhi di pesce le leggono l’anima dentro, fino in fondo, e nonostante ciò la loro espressione non muta, fissano uguale, vedono qualcosa, ma figurati se rivelano qualcosa di quello che vedono, no, in questo modo ti fissano, guardano e guardano, gli occhi di questo pesce, vedono, vedono e vedono, e cosa sarà mai quello che vedono? Fino in fondo, la sua anima? Cosa vedranno mai questi occhi di pesce in fondo alla sua anima? Ci vedono qualcosa? Potranno davvero vedere qualcosa giù, dentro la sua anima questi occhi di pesce? Ed è forse Lars che la guarda attraverso gli occhi del pesce senza farsi riconoscere? È Lars che da un luogo lontano lontano attraverso questi occhi di pesce neri e rigidi guarda verso di lei? Dentro di lei? Che vede nel suo profondo? Sempre che ce l’abbia un’intimità profonda? Ce l’ha un intimità profonda? O è solo esteriore quello che ha? Ma c’è davvero un’intimità dentro di lei?

J. Fosse, Melancholia, 389

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La scomparsa dei miti

Il folletto Yohsi era di una pasta meno eterea. Somigliava a un uomo e in casa sua teneva donne e bambini. Era trasparente ma non invisibile e passando sulla neve più soffice poteva lasciare – ma non sempre – una qualche sorta di impronta. Spezzava e raccoglieva rami secchi e pezzi di legna da ardere a cui non sapeva dare fuoco. Il più delle volte appariva ai cacciatori solitari che passavano la notte accanto al falò. Quando il cacciatore dormiva, Yohsi arrivava per agitare le fiamme con il suo lungo dito medio. Quando i ciocchi ardenti si smorzavano, il cacciatore si destava di soprassalto, per trovarsi Yohsi seduto di fronte. Il folletto poteva volar via o svanire all’istante, ma anche restare li a lungo, seminando il terrore in chi gli sedeva dirimpetto. Circolavano storie di nomadi solitari trovati morti e orribilmente mutilati, evidentemente da Yohsi, nel posto che avevano scelto per passare la notte. Una volta mi trovavo in viaggio con due ona. Dopo essere scesi dai monti sul finire del giorno, ci eravamo accampati nella boscaglia vicino al livello superiore della vegetazione, quando un secco spezzarsi di rami nell’aria gelida avvisò i miei compagni della presenza di Yohsi. Erano evidentemente agitati e quando commisi la sciocchezza di farmi beffe della loro superstizione, uno dei due mi rimproverò dicendo che se fossi stato da solo e mi fossi trovato con Yohsi seduto davanti dall’altra parte del fuoco, non sarei stato cosi coraggioso. Per qualche ignota ragione il numero degli yohsi aveva subito un forte calo prima ancora dell’arrivo dell’uomo bianco, e ora si trovavano solo nelle zone piú squallide e inaccessibili del paese.

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XLII

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Mariagrazia

Anche la madre guardava attraverso il finestrino, ma piuttosto che per vedere, per farsi vedere: quella grande e lussuosa macchina le dava un senso di felicità e di ricchezza, e ogni volta che qualche testa povera o comune emergeva dal tenebroso tramestio della strada e trasportata dalla corrente della folla passava sotto i suoi occhi, ella avrebbe voluto gettare in faccia allo sconosciuto una smorfia di disprezzo come per dirgli: “Tu brutto cretino vai a piedi, ti sta bene, non meriti altro… io, invece, è giusto che fenda la moltitudine adagiata su questi cuscini.”

A. Moravia, Gli indifferenti, 105

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Keep going

E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare

G. Ungaretti, allegria di naufragi

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Il continente nero della femminilità

Qualcosa del “continente nero” della femminilità suscita angoscia, viene rigettato, provoca rifiuto in entrambi i sessi. È la dimensione non tutta identificabile, misurabile, padroneggiabile che accompagna la radicale anarchia dell’essere femminile. In particolare, il rifiuto della femminilità investe gli uomini che hanno edificato una intera Civiltà — quella patriarcale — su questo stesso rifiuto: la donna è per ogni maschio una lingua straniera che esige un continuo e mai compiuto sforzo di apprendimento perché questa lingua non può essere codificata. Non esiste un dizionario capace di catalogarne il senso. Non sappiamo nemmeno quante siano le lettere che compongono il suo alfabeto.

M. Recalcati, Non è più come prima, 122

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Vergogna

non l’atterrivano i disagi e le privazioni a cui andava incontro, ma invece il bruciore, il pensiero di come l’avrebbero trattata, di quel che avrebbero detto le persone di sua conoscenza, tutta gente ricca, stimata ed elegante; ella si vedeva, ecco… povera, sola, con quei due figli, senza amicizie ché tutti l’avrebbero abbandonata, senza divertimenti, balli, lumi, feste, conversazioni: oscurità completa, ignuda oscurità.

A. Moravia, Gli indifferenti, 23

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Il senso del perdono

Il perdono prende senso, trova la sua possibilità di perdono solo laddove esso è chiamato a fare l’impossibile e a perdonare l’imperdonabile. […] il perdono, se ce n’è, deve e può perdonare solo l’imperdonabile, l’inespiabile — e quindi fare l’impossibile. Perdonare il perdonabile, il veniale, lo scusabile, ciò che si può sempre perdonare, non è perdonare.

M. Recalcati, Non è più come prima, 88

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Decidere

Semplicemente, dobbiamo prendere atto che non conosciamo ogni conseguenza delle nostre azioni, eppure siamo costretti ad agire. Qualsiasi etica globale creeremo dovrà includere la nostra inevitabile ignoranza, mentre viviamo la nostra esistenza nel futuro.

Stuart Kauffman, Reinventare il sacro, pag. 288.

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