Archivi tag: radici

Sardegna

Ed è bello, certo, ma non è come qui, a Hermosa, questa è la natura che domina, tu nella tua piccolezza e lei nella sua immensità, e forza, e crudeltà, e spazi e silenzi. Il rumore del vento, capisci?, e tu cammini verso il mare, da solo con i tuoi pensieri, con le domande che tutti ci facciamo da sempre, perché siamo qui, che senso ha, perché un uomo domina un altro e perché c’è chi lavora con fatica e chi ne è esentato, perché alcuni scelgono il male e altri no, perché essere vecchi è tanto brutto eppure nessuno vuole smettere di esserlo dandosi serenamente alla morte. Ti fai queste domande e guardi le querce piegate dal maestrale, i boschi infiniti di olivastri, quel muretto di pietre abbandonato tra i rovi, il falco che ti vola sulla testa, e le risposte le porta il vento, le risposte ci sono, volano nel vento, ma non le puoi capire, le intuisci nel vento, ma le tue orecchie non ce la fanno, a sentirle, e tu puoi solo andare avanti ancora e ancora, e arrivare al mare e dirti che no, non ci sarà mai altro luogo come quello in cui sei nato, e di cui conosci ogni combinazione di colore del cielo, e i rumori, e il silenzio, appunto, che è forse la cosa che più ti è entrata dentro, anche se non lo sapevi. Te ne accorgi una mattina nella calca di Venezia, il silenzio di Hermosa, capisci?

F. Soriga, Il cuore dei briganti, 13

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

Prima della civiltà

Gettando lo sguardo sulle interminabili file di colline boscose che si susseguivano lungo i sessantacinque chilometri di estensione del lago Kami, io e Talimeoat contemplammo per molto tempo e in silenzio un tramonto maestoso. Sapevo che il mio compagno stava frugando l’orizzonte alla ricerca di qualsiasi segnale di fumo da accampamenti amici o nemici. Dopo un po’ abbassò la guardia e, sdraiatosi accanto a me, parve dimenticare la mia presenza. Punto dal freddo della sera, stavo per proporgli di muoverci quando lo udii emettere un profondo sospiro e mormorare tra sé e sé, in quel modo sommesso con cui gli ona potevano pronunciare qualsiasi frase: – Yak haruin («La mia terra»).

E. L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XXXV

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

L’albero

Io che accudivo la serra,
amante degli alberi e dei fiori,
spesso in vita vidi quest’olmo ombroso,
misurandone con l’occhio i rami generosi,
e ascoltai le sue foglie gioiose
teneramente carezzarsi
con dolci sussurri eolici.
E bene lo potevano:
perché le radici si eran fatte così larghe e profonde
che il suolo del colle, arricchito di piogge
e scaldato dal sole,
non poteva negar nulla di sé;
ma cedeva i suoi succhi alle radici industriose,
attraverso le quali eran succhiati e aggirati nel tronco,
e di là ai rami e nelle foglie,
donde la brezza traeva vita e cantava.
Adesso anch’io, sepolto nella terra, vedo chiaro
che i rami di un albero
non sono più ampi delle radici.
E come potrà l’anima di un uomo
essere piú ampia della vita ch’egli ha vissuto?

E. Lee-Masters, Samuel il giardiniere

Lascia un commento

Archiviato in Poesia

Terra e radici

E’ tuttora evidente anche l’inclusione della terra nelle storie tradizionali, prova di una stretta associazione con la terra stessa e dell’esistenza di una strana, ipnotica conformità del comportamento umano per reazione alle sottigliezze del paesaggio. Molti non hanno abbandonato la terra e la terra non li ha abbandonati. È difficile, venendo dalle lontane città del sud, percepire e soprattutto sviscerare la ricchezza di questa associazione, o giudicarne il valore. Ma questa affinità arcaica con la terra, credo, è un antidoto per la solitudine che nella nostra cultura noi associamo con lo straniamento individuale e la disperazione.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 263.

Lascia un commento

Archiviato in Psicologia, Scienze naturali

Fidanzata pallida

In un momento difficile aveva sposato uno svedese con la faccia di luna piena. Avevano unito i loro due fallimenti e si erano lasciati trasportare fino a quell’estrema parte del mondo. Incappati per caso in questo vortice, avevano costruito un perfetto cottage di Malmö, città natale di lui, con le sue finestre razionali e i coprigiunto verticali dipinti di rosso con ossido di ferro.

B. Chatwin, In Patagonia, 31

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

Verso casa II

Tuttavia la lunga tendenza dell’evoluzione puramente biologica suggerisce fortemente l’inevitabilità di una profonda collisione tra la volontà umana e gli aspetti immutabili dell’ordine naturale. Questa sembra di per sé una ragione sufficiente per indagare tra le culture aborigene sulla natura del tempo, dello spazio e di altre dicotomie inventate; la relazione tra la speranza e l’esercizio della volontà; il ruolo dei sogni e dei miti nella vita umana; e gli aspetti terapeutici di una lunga intimità con un paesaggio.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 392.

Lascia un commento

Archiviato in Psicologia, Scienze naturali

I Masai e le radici

Strappare ad un uomo la terra dove è nato significa strappargli il suo passato, la sua identità, le sue radici. Togliergli ciò che è abituato a vedere, ad aspettarsi di vedere, è un po’ come portargli via gli occhi. E questo vale soprattutto per i popoli primitivi: quanta strada sono capaci di ripercorrere gli animali, quanti pericoli e sofferenze affrontano per tornare nei luoghi a loro noti, per ritrovare la loro identità perduta!
Quando erano stati costretti ad abbandonare la loro antica terra, a nord della ferrovia, per stabilirsi nell’attuale riserva, i masai avevano portato con sé anche i nomi delle colline, delle pianure e dei fiumi per trasferirli alle colline, alle pianure e ai fiumi della loro nuova dimora. Donde nascono frequenti equivoci, per i viaggiatori. Serbando religiosamente le loro radici troncate, quasi unguento per la ferita dell’esilio, avevano cercato nella nuova terra di mantener vivo il passato con una formula.

K. Blixen, La mia Africa, V, 4

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura

Un ritorno sognato a lungo

Pareva un destino. Certe volte mi chiedevo perché, di tanta gente viva, non restassimo adesso che io e Nuto, proprio noi. La voglia che un tempo avevo avuto in corpo (un mattino, in un bar di San Diego, c’ero quasi ammattito) di sbucare per quello stradone, girare il cancello tra il pino e la volta dei tigli, ascoltare le voci, le risate, le galline, e dire “Eccomi qui, sono tornato” davanti alle facce sbalordite di tutti – dei servitori, delle donne, del cane, del vecchio – e gli occhi biondi e gli occhi neri delle figlie mi avrebbero riconosciuto dal terrazzo – questa voglia non me la sarei cavata più. Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna – dormivo all’Angelo e discorrevo col Cavaliere -, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più. Da un pezzo non c’erano più. Quello che restava era come una piazza all’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato.

C. Pavese , la luna e i falò , CAP XIV

Lascia un commento

Archiviato in Letteratura