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Un’udienza dal Swami

Sentivo la pressione di quei suoi fedelissimi, delusi, e mi venne da chiedergli come faceva a essere sempre così paziente, cosi disponibile con tutti. Avevo osservato, dissi, come passava ore a riceverli, ad ascoltarli. Ognuno voleva la sua attenzione, il suo tempo. Il Swami rispose con una frase che fu determinante nel mio rapporto con lui: «Io non ho più bisogno di tempo», disse. «Ho già fatto tutto quel che volevo fare. Il tempo che mi resta è tempo pubblico. Anche tu ti stai avvicinando all’età in cui il tempo che hai puoi dedicarlo agli altri.» Dio mio, se mi sarebbe piaciuto! Ma ne ero così lontano… Lo sentii ancora dire: «Vedrai, sarà così anche per te. È una questione matematica. Quando avrai scoperto che tu sei la totalità, niente più ti potrà essere tolto». Lui poteva insegnarmi questo? Allora avevo davvero trovato «il mio maestro»!

T.Terzani, Un altro giro di giostra, 309

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Senza dei

Solo così pensando noi potremo comprendere
che la natura, affrancata da qualsivoglia padrone,
può sempre agire da sola senza un dio che intervenga.
Se pensiamo agli dei, che sono sempre sereni,
ed al ritmo tranquillo che guida la loro esistenza
quale reggerà il mondo con polso fermo e sicuro
governando il timone di questo intero universo?

Lucrezio, de rerum natura, II-1090

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Senza più peso

Per un Iddio che rida come un bimbo, 
Tanti gridi di passeri, 
Tante danze nei rami, 
Un’anima si fa senza più peso, 
I prati hanno una tale tenerezza, 
Tale pudore negli occhi rivive, 
Le mani come foglie 
S’incantano nell’aria… 
Chi teme più, chi giudica? 

G. Ungaretti, Senza più peso

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Il sacro per tutti i popoli

Poiché il mondo diventa sempre più piccolo, un numero crescente di culture e di civiltà viene a stretto contatto. Non stupisce allora che, come ha scritto Huntington, nel mondo post-guerra fredda stia avvenendo uno scontro tra civiltà: occidentale, islamica, turca, confuciana, russa, persiana, indù e giapponese; alcune moderne e altre antiche. E nemmeno sorprende che le nostre identità risiedano sempre più in queste civiltà e spesso nella loro eredità religiosa. Come non sorprende che le frontiere delimitanti queste civiltà siano luoghi di guerra. Se non possiamo trovare un terreno comune più velocemente dell’emergenza dei fondamentalismi risultanti, allora dovremmo temere nuovi focolai di guerra. Il compito di trovare uno spazio spirituale, etico e morale comune che si diffonda sul pianeta non potrebbe essere più urgente.

Stuart Kauffman, Reinventare il sacro, pag. 290.

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Scienza moderna, come una nuova fede

Anche spalancando gli occhi, l’Uomo non vede niente. Procede a tentoni vacillando sull’oscura strada della vita che non sa da dove viene né dove va. È angosciato come il bambino chiuso in una stanza buia. Per questo, religioni, miti, oroscopi, guaritori, profeti, chiaroveggenti, magia e scienza odierna, hanno sempre avuto tanto successo nel corso dei secoli. Grazie a queste cianfrusaglie esoteriche, l’Uomo può agire. O almeno vuole crederlo, per calmare l’angoscia.

H. Laborit, Elogio della fuga, 44

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Anima ovunque

Si ha bisogno di poco per vivere: poco spazio, poco nutrimento, poca gioia, pochi utensili e arnesi; è la vita in un fazzoletto. Viceversa, c’è anima ovunque. Lo si sente nel movimento della strada, nell’intensità degli sguardi, nella virulenza della più piccola discussione, e, al passaggio di uno straniero, nella cortesia dei sorrisi accompagnati spesso, nei paesi musulmani, da un salaam con la mano portata alla fronte. Come interpretare altrimenti la facilità con la quale questa gente prende posto nel cosmo? Ecco dunque la civiltà del tappeto da preghiera che rappresenta il mondo, o del quadrato disegnato per terra che definisce un luogo di culto. Ecco qui questi uomini, in piena strada, ognuno nell’universo della sua piccola bottega, placidi e intenti ognuno alla sua piccola industria, in mezzo alle mosche, ai passanti, al fracasso: barbieri, scrivani, parrucchieri, artigiani. Per poter resistere, è necessario un legame molto forte, molto personale, con il soprannaturale, e forse uno dei segreti dell’Islam, e degli altri culti di questa regione del mondo, è che ciascuno si sente incessantemente in presenza del suo Dio.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 15

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Il prete di Vidme

E lui. Vidme, è una persona incredibilmente sola e vorrebbe parlare con un prete colto, erudito, uno che ha fatto ciò che a Vidme risulta impossibile, avere un lavoro all’interno della Chiesa Norvegese, un prete che ha vissuto nella società insieme agli altri, che si è proposto quale missione nella vita quella di marcare i passaggi importanti nella vita della gente, da bambino a adulto, da vecchio a morto, un uomo che, lì seduto con il suo bicchiere in mano, per lo meno così, guarda con grande indulgenza tutti quegli strani personaggi e lui, quel prete, utilizza con cautela la parola cristiano, è un termine così abusato che il prete stesso stenta a chiamarsi cristiano, preferisce evitare di parlare troppo di Dio, è un uomo così, un uomo umile, un uomo che non ha mai scritto né libri né articoli, è un uomo così che lo scrittore Vidme vorrebbe tanto conoscere. Lui, Vidme, non vuole conoscere un prete con una bella moglie, uno che suona la chitarra e canta canzoni, un prete con bimbi belli e obbedienti. Un prete così Vidme non lo vuole affatto incontrare. Vidme vuole incontrare un prete che, se proprio deve avere una moglie, che preferirebbe non avere, è sposato con una moglie che non è bella e gentile. Vidme vuole incontrare un prete sposato con una donna dalla quale l’ansia non stia molto lontana, una donna che sa che l’amore sta tra uccidere l’altro e preoccuparsi per l’altro, una donna che capisce quasi tutto e che possiede dignità e non una gentilezza sorridente, lui s’immagina che il prete che ha pensato per sé sia sposato con una donna che anzitutto somigli a lui in quanto al fatto che, come lui, nasconde una vergogna con umile dignità, senza saccenteria né virtuosismi. È un prete sposato con una donna di questo tipo, se proprio deve essere sposato, quello a cui Vidme cerca di telefonare in questo giorno.

J. Fosse, Melancholia, 267

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Mistico

Perché lui, Vidme, un uomo sui trent’anni, ma con già qualche capello grigio, ritiene di avere scoperto qualcosa d’importante che gli cambierà la vita, ha capito che si è addentrato in qualcosa d’importante attraverso la sua attività di scrittore, qualcosa con cui deve fare i conti se vuole continuare con la sua vita, e per questo Vidme cammina nella pioggia e nel vento pensando che già molti anni di lavoro come scrittore gli hanno man mano insegnato qualcosa di importante, qualcosa di cui pochi sono a conoscenza, lui ha visto qualcosa che non così tanti hanno visto, pensa Vidme, mentre cammina nella pioggia e nel vento, infatti, se uno si concentra abbastanza, lavora con sufficiente profondità e concentrazione, a capofitto in qualcosa, se uno vuole, se solo arriva dentro abbastanza, se s’immerge abbastanza, arriva a vedere qualcosa che gli altri non hanno visto e quello che lui lì ha visto, pensa Vidme, mentre cammina nella pioggia e nel vento, è la cosa più importante che ha ricavato dai tanti anni in cui praticamente ogni santo giorno ha scritto. Vidme crede che il suo lavoro di scrittore lo abbia condotto nelle profondità più recondite di qualcosa che lui in momenti improvvisi, istanti felici di lucidità, è arrivato a considerare come un lampo di divino, ma sia il lampo sia il divino sono espressioni che a Vidme non possono piacere, se non avesse disprezzato così tanto queste espressioni avrebbe potuto dire che in singoli istanti illuminati ha avuto un’esperienza che non può negare, un’esperienza che può anche sembrare ridicola, è ridicola, sia per Vidme, sia per la maggioranza della gente, però in alcuni istanti di grazia, se solo potesse fare uso di questa espressione, Vidme, uno scrittore fallito quanto basta, invecchiato presto, si è reso conto di essere stato in prossimità di ciò che con un’espressione che non si sarebbe mai immaginato di utilizzare non può chiamare altro che il divino.

J. Fosse, Melancholia, 252

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L’ateo del villaggio

Voi giovani oratori sulla dottrina
dell’immortalità dell’anima,
io che qui giaccio ero l’ateo del villaggio,
loquace, litigioso, versato negli argomenti
dei miscredenti.
Ma in una lunga malattia
mentre tossivo a morte
lessi le Upanishad e il poema di Gesú.
Ed essi accesero una fiaccola di speranza e d’intuizione
e di desiderio che l’Ombra,
guidandomi rapida tra le caverne del buio,
non poté estinguere.
Ascoltatemi, voi che vivete nei sensi
e pensate soltanto attraverso i sensi:
l’immortalità non è un dono, l’immortalità è un compimento;
e solo coloro che si sforzano molto
potranno ottenerla.

E. Lee-Masters, L’ateo del villaggio

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Il cielo, il vento, il senso

Ora, lui, Vidme, per parecchi anni è andato per il mondo convinto che è blasfemo parlare del divino e di Dio. Espressioni di questo tipo non le usa lui. O comunque se uno usa espressioni come il divino o Dio, allora non deve voler dire niente di più. E una volta formulato questo pensiero, Vidme si è immaginato tutte quelle persone confuse che hanno cercato un senso alla propria vita dicendo che è il volere di Dio e che succederà questo e quello, perché il buio è stato pesante, il vento forte, l’amore è stato, come sempre, a metà tra uccidere l’altro e preoccuparsi per l’altro, il mare è stato troppo duro, i parti ancora più duri e sopra tutto quanto c’era un enorme cielo. Il mare blu e il cielo blu. Il buio fitto e il vento sibilante. E poi una chiesa, una casa di preghiera sulle montagne. Un cimitero sotto la pioggia nell’oscurità. E ci deve pur essere un senso in tutto questo.

J. Fosse, Melancholia, 266

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