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Lo Svedese

Un bravo ragazzo, semplice e stoico. Non uno spiritosone. Non un passionale. Solo un uomo adorabile destinato a farsi fottere da pazzi scatenati. In un certo senso, lo si sarebbe potuto credere un uomo assolutamente banale e conformista. Un’assenza di valori negativi e nient’altro. Educato alla piattezza, costruito per il conformismo, eccetera eccetera. La vita ordinaria e decorosa che vogliono fare tutti, e nient’altro. L’adattamento sociale, e nient’altro. La bonarietà, e nient’altro. Mentre quello che cercava di fare era sopravvivere, mantenendo il gruppo intatto. Stava cercando di farcela col suo plotone intatto. Era una guerra, per lui in definitiva. C’era qualcosa di nobile in quell’uomo. Rinunce dolorose hanno caratterizzato la sua vita. E’ stato coinvolto in una guerra che non aveva cominciato, e si è battuto per tenere tutto insieme, e ci ha lasciato le penne.

P.Roth, Pastorale americana, pag. 71

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Cultura

L’uomo aveva la cultura della pietra scheggiata che lo univa, oscuramente ma completamente, al cosmo. L’operaio di oggi non ha neppure la cultura del cuscinetto a sfera che costruisce con gesti automatici, tramite una macchina. E per ritrovare il cosmo, per sentirsi parte della natura deve avvicinarsi alle finestrine che l’ideologia dominante accetta di aprire qua e là, nella sua prigione sociale, per fargli arrivare l’aria fresca. È un’aria avvelenata dai gas di scappamento della società industriale, eppure quest’aria viene chiamata Cultura.

H. Laborit, Elogio della fuga, 52

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La buona educazione

È meglio allora procurare al bambino una « buona » educazione capace innanzi tutto di permettergli una rispettabile « carriera » professionale. Gli insegnano a « servire », in altri termini gli insegnano la servitù nei confronti delle strutture gerarchiche di dominanza. Gli fanno credere che agisce per il bene della comunità, una comunità istituzionalizzata gerarchicamente che lo ricompensa di ogni sforzo compiuto verso la servitù all’istituzione. La servitù diventa allora gratificante. L’individuo è convinto della propria dedizione, del proprio altruismo mentre agisce solo per il proprio appagamento, un appagamento però deformato dal fatto di aver assimilato i dettami della sociocultura.

H. Laborit, Elogio della fuga, 58

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A galla in un mare di condizionamenti

La nozione di relatività dei giudizi porta all’angoscia, è vero. È più semplice avere a nostra disposizione, quando si deve agire, una strategia già pronta, o le istruzioni per l’uso. Le nostre società che esaltano tanto spesso, almeno a parole, la responsabilità, si industriano di non lasciarne affatto all’individuo, per paura che agisca in modo non conforme alla struttura gerarchica di dominanza. E il bambino, per sfuggire all’angoscia, per rassicurarsi, cerca l’autorità delle regole imposte dai genitori. Da adulto farà lo stesso con l’autorità imposta dalla sociocultura in cui è inserito. Si aggrapperà ai giudizi di valore di un gruppo sociale, come un naufrago si aggrappa disperatamente alla ciambella di salvataggio.

H. Laborit, Elogio della fuga, 57

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Che cultura

In una società commerciale, esser colti significa appartenere a quella parte privilegiata della società che può permettersi di diventarlo. Concedere a coloro che non hanno questa fortuna di partecipare alla cultura è in qualche modo permettergli un’ascesa sociale. È un modo di gratificarli narcisisticamente, di migliorare il loro livello di vita, di arricchire l’immagine che di sé possono dare agli altri. È probabile che questo processo derivi direttamente dal rammarico del borghese di non appartenere a un’aristocrazia inutile, non produttiva e colta.

H. Laborit, Elogio della fuga, 48

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Ritratto dello snob

Del resto il comportamento dello snob è molto chiaro. Di per sé sterile, può affermare la sua singolarità solo dimostrando di partecipare a ciò che è singolare. Fa sua la singolarità degli altri e finge di capirla e apprezzarla. Fa così parte di un’accorta élite, in mezzo alla calca volgare e omogenea. Se poi dall’accoppiamento del non conformista con Io snob, può nascere un sistema commerciale, potranno abbinarsi il successo sociale, temporaneo per fortuna, e l’inserimento dell’artista, o supposto tale, nella scala consumatrice e gerarchica. Questo sarà tanto più facile, in quanto l’esperienza storica dimostra che l’innovatore è quasi sempre incompreso dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Di qui a pensare che ogni artista incompreso è un genio creatore, il passo è breve.

H. Laborit, Elogio della fuga, 47

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Arte e sociocultura

L’artista, fin dal concepimento, è per forza legato alla sociocultura presente nel tempo e nello spazio sociale. La fugge, ma ne rimane più o meno impregnato. Per quanto geniale, appartiene alla sua epoca, ed è la sintesi di coloro che lo hanno preceduto e la reazione alle abitudini culturali da essi imposte. E proprio nella reazione può trovare la sua originalità. Anche se questa è la ragione per cui l’arte può sembrare ambigua ai contemporanei. Il bisogno, che ognuno di noi ha, di essere ammirato, stimato, spinge l’artista all’anticonformismo. Rifiuta il « déjà vu », il « déjà entendu ». Questo è il prezzo della creazione e anche il prezzo dell’ammirazione che essa suscita. Ma l’opera originale si discosta allora dai criteri di riferimento con cui di solito viene giudicata e, dato che l’arte deve essere non oggettiva, deve mantener le distanze dalla sensazione, dal mondo della realtà, diventa difficilissimo dare di essa un giudizio immediato. L’arte, come la vendetta, è un piatto da consumare freddo. Solo l’imprevedibile evoluzione del gusto potrà in seguito consacrare il genio.

H. Laborit, elogio della fuga, 47

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Dotte esibizioni

Ma in realtà la ragione principale, secondo me, del sedicente liberalismo culturale dei paesi occidentali deriva dal fatto che la cultura autorizzata, o addirittura favorita, è un groviglio indescrivibile che permette di infiorare la conversazione con citazioni latine o straniere e di issare sulle drizze le bandiere di riconoscimento della società borghese. É una cultura per uso esterno, come il bottoncino di metallo che adorna l’occhiello dei membri di un rotary. Facilita, come i gradi, il comportamento altrui nei confronti del livello gerarchico che abbiamo raggiunto, oppure permette, se la vita non ci è stata propizia, di mantenere la nostra appartenenza, pur senza avere un’attività produttiva ricompensata dalla promozione sociale.

H. Laborit, Elogio della fuga, 51

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Differenze di classe…

“Questo significa” disse Carla “che dovremo lasciare la villa e andare ad abitare in un appartamento di poche stanze?”
“Già,” rispose Michele “proprio così.”
Silenzio; la paura della madre ingigantiva; non aveva mai voluto sapere di poveri e neppure conoscerli di nome, non aveva mai voluto ammettere l’esistenza di gente dal lavoro faticoso e dalla vita squallida. “Vivono meglio di noi” aveva sempre detto; “noi abbiamo maggiore sensibilità e più grande intelligenza e perciò soffriamo più di loro…”

A. Moravia, Gli indifferenti, III

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Se lottare

Nel nostro mondo molto spesso non si incontrano uomini, ma agenti di produzione, professionisti che non vedono più in noi l’Uomo, ma il concorrente, e appena il nostro spazio gratificante interagisce con il loro cercano di prendere il sopravvento, di sottometterci. Allora se non siamo disposti a trasformarci in hippies o in drogati dobbiamo fuggire, rifiutare, se possibile, la lotta, perché quegli avversari non ci affronteranno mai da soli ma si appoggeranno sempre a un gruppo o a una istituzione. È finita l’epoca della cavalleria, quando si gareggiava a uno a uno in torneo. Oggi sono intere consorterie che attaccano l’uomo solo, e se per disgrazia quest’ultimo accetta il confronto, sono sicure di vincere, perché sono l’espressione del conformismo, dei pregiudizi, delle leggi socioculturali del momento. Se ci avventuriamo da soli in una via non incontriamo mai un altro uomo solo ma sempre una compagnia di trasporti collettivi.

H. Laborit, Elogio della fuga, 29

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