Quando entrai nella segheria, parlai agli indiani li presenti nella loro lingua, e loro mi si affollarono subito intorno. Molti erano splendidi rappresentanti della razza, ma Hektliohlh, che non era il più alto, spiccava su tutti per figura e portamento. Erano tutti «decentemente vestiti» con abiti smessi e logori, di diverse taglie più piccoli del dovuto. Mentre li guardavo non potei evitare di immaginarmeli dritti in piedi, nei loro luoghi natii, alteri e coperti di pitture, armati d’arco e frecce e abbigliati come un tempo, con i tradizionali goöchilh, oli e jamni (copricapi, mantelli e mocassini).
Alcuni mi conoscevano di vista e molti altri per sentito dire. Purtroppo i lavori si erano interrotti e, notando che i fratelli laici si stavano infastidendo per la pausa imprevista, dovetti ritirarmi. Più tardi, tuttavia, quando il turno fini potei scambiare qualche parola con Hektliohlli. Dopo essere fuggito da Ushuaia era stato nuovamente catturato, questa volta da alcuni coloni che lo avevano consegnato alla Missione salesiana. Non sembrava avere motivo di lamentarsi per come lo trattavano ma era terribilmente abbattuto dalla prigionia. Rivolgendo uno sguardo struggente ai monti lontani della sua terra natia disse: – Shouwe t-maten ya («La nostalgia mi sta uccidendo»). E fu proprio cosi, perché non sopravvisse a lungo. La libertà è un bene prezioso per l’uomo bianco: per gli indomiti abitanti delle foreste è una necessità assoluta.
E.L. Bridges, Ultimo confine del mondo, XXIX