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Vite in mare

C’è una così straordinaria vaghezza nelle aspettative che ci hanno portato in mare, un’indeterminatezza così esaltante, una così grande sete di avventure da vivere che in se stesse sono l’unico compenso! Quello che ne otteniamo in cambio— beh, non parliamone; è impossibile trattenere un sorriso. In nessun altro tipo di vita l’illusione è più lontana dalla realtà — in nessun altro l’inizio è tutta illusione — la delusione più rapida — la sottomissione più completa.

J.Conrad, Lord Jim, XI

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In mare aperto

Come aspirai quell’aria frizzante! come sdegnai la terra limitata — quella strada comune tutta segnata dalle impronte di tacchi e di zoccoli servili — e mi volsi ad ammirare la magnanimità del mare che non lascia ricordi!

H. Melville, Moby Dick, 87

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Uomini attratti dall’acqua

Che il più distratto degli uomini sia immerso nelle sue più profonde fantasticherie: mettete quest’uomo in piedi, fategli muovere le gambe, ed egli, infallibilmente, vi condurrà all’acqua, se acqua c’è in tutta la regione.

H. Melville, Moby Dick, I

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Acqua e meditazione

Sì, come ciascuno sa, acqua e meditazione sono sposate per sempre.

H. Melville, Moby Dick, I

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Miraggi

Andate in giro per la città in un sognante pomeriggio del Sabato. Andate da Corlears Hook a Coenties Slip e di là, lungo Whitehall, verso il nord. Che cosa vedete? Fissi, come sentinelle silenziose, tutto intorno alla città, stanno migliaia e migliaia di mortali perduti in fantasticherie oceaniche. Alcuni appoggiati a una palizzata, altri seduti sulle testate dei moli, altri che guardano oltre le murate di navi che provengono dalla Cina e altri arriva, nell’attrezzatura, come se si sforzassero di gettare un’occhiata ancor più vasta verso il mare. Ma tutti costoro sono gente di terra; rinchiusi, nei giorni feriali, negli steccati, legati ai banchi, inchiodati ai sedili, avvinti alle scrivanie. Come fa dunque? Sono scomparse tutte le verdi campagne? Che cosa fanno qui costoro?

H. Melville, Moby Dick, I

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Come un Ismaele

Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumo-re si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è d mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c’è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano.

H. Melville, Moby Dick, I

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La fame

Non una voce straniera giunge loro, non un volto estraneo possono vedere in quelle settimane. Ma ecco che, a un tratto, dai più reconditi angoli della nave sbuca il ben noto e pallido fantasma dalle occhiaie cave: la fame. Questo tremendo compagno dell’Oceano Pacifico, questo spietato torturatore e assassino di tanti vecchi compagni, dev’essersi ancora insinuato segretamente a bordo: ecco che siede tra loro, che schernisce col suo ebete ghigno i loro volti stralunati.

S. Zweig, Magellano, XII

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I vermi di John Davis

A dieci miglia dalla costa c’era un’isola, la vera Isola dei Pinguini, dove i marinai ammazzarono a col-pi di bastone ventimila pinguini. Questi, non avendo nemici naturali, non avevano paura dei loro assassini. John Davis ordinò di seccare i pinguini e di salarli, e ne immagazzinò quattordicimila nella stiva.
Quando arrivarono all’Equatore i pinguini si presero la rivincita. Dai loro corpi nacquero dei vermi schifosi, lunghi circa un pollice. Eccetto il ferro, questi vermi mangiavano tutto: vestiti, coperte, stivali, cappelli, lacci di cuoio e carne umana viva. Rosicchiarono i fianchi della nave, minacciando di farla andare a fondo. Più ne uccidevano e più si moltiplicavano.

B. Chatwin, In Patagonia, 45

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Dal piroscafo

Ritorno a bordo. Il piroscafo salpa e stride di tutte le sue luci; sfila davanti al mare che si frastaglia e sembra passare in rivista un pezzo di strada oscura. Verso sera c’è stato un uragano e il mare riluce al largo come un ventre di bestia. Intanto, lembi di nuvole a brandelli, che il vento deforma a zig-zag, a croci e triangoli, mascherano la luna. Quelle figure bizzarre sono come illuminate dall’interno: sul fondo nero del cielo, si direbbe un’aurora boreale a uso dei tropici. Di tanto in tanto si scorge attraverso queste apparizioni fumose un frammento di luna rossastra che passa, ripassa e scompare come una lanterna errante e angosciata.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, cap. 9

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Sponde africane

La costa, sotto la casa, era tutta sforacchiata da caverne e grotte profonde, dove si poteva sedere all’ombra a guardare l’acqua azzurra, scintillante in lontananza. Con l’alta marea l’acqua riempiva le grotte giungendo fino al livello della casa; nella porosa roccia corallifera, il mare cantava e sospirava in modo strano, come se la terra, sotto di noi, fosse viva. Le lunghe ondate si lanciavano nella baia, come un esercito all’assalto.
Trascorsi qualche giorno a Takaunga durante la luna piena: la bellezza delle notti radiose e quiete era cosí perfetta da spezzare il cuore. Si dormiva con la porta aperta sul mare argentato; la tiepida brezza giocherellona soffiava con un basso mormorio lievi folate di sabbia sul pavimento di pietra. Una notte un gruppo di dhows arabi passò lungo la costa, correndo silenziosamente davanti al monsone; parevano una fila d’ombre di vele brune, sotto la luna.

K. Blixen, La mia Africa, cap. 7

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