Archivi del mese: novembre 2013

Traiettorie

E dimentichiamo quasi sempre che le vite delle persone non sono soltanto questo: ogni percorso si compone anche delle nostre perdite e dei nostri rifiuti, delle nostre omissioni e dei nostri desideri insoddisfatti, di ciò che una volta abbiamo tralasciato o non abbiamo scelto o non abbiamo ottenuto, delle numerose possibilità che nella maggior parte dei casi non sono giunte a realizzarsi – tutte tranne una, alla fin fine -, delle nostre esitazioni e dei nostri sogni, dei progetti falliti e delle aspirazioni false o deboli, delle paure che ci hanno paralizzati, di ciò che abbiamo abbandonato e di ciò che ci ha abbandonati. Insomma, noi persone forse consistiamo tanto in ciò che siamo quanto in ciò che siamo stati, tanto in ciò che è verificabile e quantificabile e rammemorabile quanto in ciò che è più incerto, indeciso e sfumato, forse siamo fatti in uguale misura di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere.

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me, Epilogo.

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Sponde africane

La costa, sotto la casa, era tutta sforacchiata da caverne e grotte profonde, dove si poteva sedere all’ombra a guardare l’acqua azzurra, scintillante in lontananza. Con l’alta marea l’acqua riempiva le grotte giungendo fino al livello della casa; nella porosa roccia corallifera, il mare cantava e sospirava in modo strano, come se la terra, sotto di noi, fosse viva. Le lunghe ondate si lanciavano nella baia, come un esercito all’assalto.
Trascorsi qualche giorno a Takaunga durante la luna piena: la bellezza delle notti radiose e quiete era cosí perfetta da spezzare il cuore. Si dormiva con la porta aperta sul mare argentato; la tiepida brezza giocherellona soffiava con un basso mormorio lievi folate di sabbia sul pavimento di pietra. Una notte un gruppo di dhows arabi passò lungo la costa, correndo silenziosamente davanti al monsone; parevano una fila d’ombre di vele brune, sotto la luna.

K. Blixen, La mia Africa, cap. 7

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(In)Congruenze

Una delle più vecchie differenze culturali con gli eschimesi è se si debba accettare la terra così com’è oppure usare la volontà per cambiarla in qualcosa di diverso. Il grande compito della vita, per l’eschimese tradizionale, è tuttora raggiungere la congruenza con una realtà già data. La realtà già data, il paesaggio reale, è “orrore nella magnificenza, assurdità nell’intelligibilità, sofferenza nella gioia”, secondo le parole di Albert Schweitzer. Noi non stimiamo altrettanto queste lezioni di paradosso. Teniamo in maggiore considerazione la trattabilità e l’alterabilità della terra. Crediamo che le condizioni della terra possono essere cambiate per assicurare la felicità umana, creare posti di lavoro, ricchezze materiali, comodità.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 392.

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Felice

Questa volta lasciate
che sia felice,
non è successo nulla a nessuno,
non sono da nessuna parte,
succede solo
che sono felice
fino all’ultimo profondo angolino
del cuore, camminando,
dormendo o scrivendo.
Che posso farci, sono
felice.
Sono più sterminato
dell’erba
nelle praterie,
sento la pelle come un albero raggrinzito,
e l’acqua sotto,
gli uccelli in cima,
il mare come un anello
intorno alla mia vita,
fatta di pane e pietra la terra
l’aria canta come una chitarra.

Tu al mio fianco sulla sabbia
sei sabbia
tu canti e sei canto,
il mondo
è oggi la mia anima
canto e sabbia,
il mondo
è oggi la tua bocca,
lasciatemi
sulla tua bocca e sulla sabbia
essere felice,
essere felice perché sì, perché respiro
e perché respiri,
essere felice perché tocco
il tuo ginocchio
ed è come se toccassi
la pelle azzurra del cielo
e la sua freschezza.

Oggi lasciate
che sia felice,
io e basta,
con o senza tutti,
essere felice
con l’erba
e la sabbia,
essere felice
con l’aria e la terra,
essere felice
con te, con la tua bocca,
essere felice.

P. Neruda, Ode al giorno felice

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Tramonto IX

Così, allo spettacolo degli ori e delle porpore, la notte comincia a sostituire il suo negativo, dove i toni caldi prendono il posto dei bianchi e dei grigi. La lastra notturna rivelò lentamente un paesaggio marino al di sopra del mare, immenso scenario di nubi che si sfilacciavano contro un cielo oceanico, quasi in isole parallele, come una costa piatta e sabbiosa vista da un aeroplano a bassa quota, inclinato su un’ala, che lanci le sue frecce sul mare. L’illusione era accresciuta dalle ultime luci del giorno le quali, radendo obliquamente quelle creste nuvolose, le faceva sembrare solide rocce – in altre ore, anch’esse, scolpite in ombre e luci – come se l’astro non potesse più usare il suo bulino scintillante sui porfidi e sui graniti, ma solo su sostanze labili e vaporose, pur conservando nel suo declino lo stesso stile. Su questo sfondo di nuvole che tanto somigliava a un paesaggio costiero, sgombratosi il cielo, si videro apparire spiagge, lagune, moltitudini di isolotti e di banchi di sabbia invasi da quell’oceano inerte che intagliava di fiordi e di laghi interni il planisfero in corso di dissociazione. E poiché il cielo a sfondo di quelle guglie simulava un oceano, e poiché il mare riflette di solito il colore del cielo, questo quadro celeste riproduceva un paesaggio lontano sul quale il sole tramonterebbe di nuovo. Bastava del resto considerare il vero mare, al di sotto, per sfuggire al miraggio: non era più la lastra ardente del mezzogiorno, né la superficie increspata del pomeriggio. l raggi, quasi orizzontali, non illuminavano più che un solo lato delle piccole onde; e l’acqua prendeva così un rilievo dalle ombre nette, scolpite come in un metallo. Ogni trasparenza era scomparsa.

C. Lévi-Strauss, 7

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Masai na-kudja

D’un tratto, una grande eccitazione si propagò fra i ballerini, un moto profondo di sorpresa e di paura, un fruscio curioso, come quando il vento corre fra i giunchi. Il ballo diventava sempre piú lento, sempre piú lento, ma continuava. Chiesi ad uno dei vecchi cosa stesse succedendo. Mi rispose in fretta, a bassa voce: “Masai na-kudja” – arrivano i Masai.
Lí per lí non accadde nulla. La notizia, evidentemente, era stata portata da un messaggero, e i kikuyu l’avevano rimandato indietro a dire che erano pronti a ricevere gli ospiti. La legge
proibiva ai Masai di intervenire alle Ngomas kikuyu; ogni volta che vi avevano partecipato avevano provocato troppi guai. I ragazzi di fattoria si raccolsero intorno a me, tutti guardavano verso la strada. All’apparir dei Masai la danza cessò del tutto.
Erano dodici giovani guerrieri; fatto qualche passo si fermarono, in attesa, senza guardare né a destra né a sinistra, sbatte vano appena le palpebre verso il fuoco. Tranne le armi e le magnifiche acconciature del capo, erano nudi. Uno portava la testa di leone che il guerriero Morano porta in guerra. Dal ginocchio al piede avevano dipinta una larga striscia scarlatta, come gli scorresse il gangue lungo la gamba. Stavano eretti, le gambe rigide, il capi all’indietro, silenziosi e mortalmente gravi, nell’atteggiamento allo stesso tempo del conquistatore e del prigioniero. Si aveva la sensazione che fossero venuti alla Ngoma contro la loro stessa volontà. Il suono monotono dei tamburi, martellando senza tregua, aveva passato il flume ed era giunto fino alla riserva, turbando il cuore dei giovani guerrieri: dodici di loro non avevano potuto resistere al richiamo.

K. Blixen, La mia Africa, cap. 2

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Pëtr Petròvic

«Eh sì, le nostre strade sono così lunghe… È tanto grande, la nostra cosiddetta madre Russia… Io, pur desiderandolo, ieri non ho proprio avuto il tempo di venire ad accogliervi. Spero comunque che non si siano verificati inconvenienti…»
« Veramente, Pëtr Petròvic, eravamo molto scoraggiate,» si affrettò a rispondere in uno tono tutto particolare Pulchèrija Aleksàndrovna. «Se, a quanto sembra, la stessa divina provvidenza non ci avesse inviato ieri Dmìtrij Prokòfic, saremmo finite proprio male. Eccolo, Dmìtrij Prokòfic Razumìchin,» aggiunse presentandolo a Lùzin.
«Sì, sì, ho già avuto il piacere… Ieri,» borbottò Lùzin, lanciando un’occhiata ostile a Razumìchin; dopodiché si accigliò e stette zitto. Pëtr Petròvic, d’altronde, era una di quelle persone apparentemente amabilissime in società, e con grandi pretese di cortesia, che tuttavia, appena qualcosa non va loro a genio, perdono tutte le loro doti e diventano simili più a sacchi di farina che a disinvolti cavalieri.

F. M. Dostoevskij, Delitto e castigo, parte IV, 2

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Comunione

Credo
che non ci uniremo lassù in cima.
Credo
che sotto la terra niente ci aspetti,
ma sulla terra
andiamo insieme.
La nostra comunione è sulla terra.

P. Neruda, da Solo l’uomo

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Movimenti

La percezione spaziale e la natura del movimento, la forma e la direzione che qualcosa assume nel tempo, sono argomenti di cui si sono occupati con impegno personalità come Werner Heisenberg, Paul Dirac e David Bohm nei loro scritti sui fenomeni subatomici. Io credo che pensieri molto simili, potenzialmente altrettanto belli nella loro complessità, insorgano con la considerazione del modo in cui gli animali si muovono nei loro paesaggi: il volo d’un corvo che risale direttamente una valle, il girovagare dei caribù al pascolo, i movimenti invernali di un orso bianco sul ghiaccio marino. Sappiamo ben poco di ciò che causa per reazione tali movimenti; noi scegliamo le dimensioni dello spazio e la durata di tempo che riteniamo appropriate per descriverli, ma non abbiamo nessuna sicurezza che siano pertinenti. Osservare un girifalco e una civetta delle nevi che si incrociano nello stesso cielo significa chiedersi in che modo la vita dell’uno influisce sulla vita dell’altra. Sedersi sul fianco della collina per guardare la lenta intermescolanza di due branchi di buoi muschiati che pascolano in un prato di carici e cercare di discernervi una logica significa affrontare l’indeterminazione. Guardare uno stormo di oche delle nevi che deviano tutte insieme dal vento significa chiedersi dove incomincia un animale e dove finisce l’altro. Gli animali ci confondono non già perché sono ingannevolmente semplici, ma perché in ultima analisi sono inseparabili dalle complessità della vita. Sono appunto queste sottigliezze della realtà e della concettualità a costituire la fisica delle particelle, che passa per la filosofia naturale del nostro tempo. Gli animali si muovono più lentamente delle particelle beta, e in uno spazio enormemente più vasto di quello battuto dalla nuvola di elettroni; tuttavia, se li lasciamo fare, ci sospingono verso una considerazione degli stessi interrogativi circa la natura fondamentale della vita e le relazioni che legano le forme di energia in schemi riconoscibili.

Barry Lopez, Sogni artici, pag. 183.

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Tramonto VIII

Niente è più misterioso dell’insieme di processi sempre identici, ma imprevedibili, per i quali la notte subentra al giorno. Il suo segno appare improvviso nel cielo, accompagnato da incertezza e angoscia. Nessuno saprebbe prevedere la forma che adotterà, questa volta, unica fra tutte le altre, il sorgere della notte. Mediante un’alchimia impenetrabile, ogni colore si trasforma nel suo complementare, mentre si sa che, sulla tavolozza, per ottenere lo stesso risultato, bisognerebbe usare altre tinte. Ma, per la notte, i miscugli non hanno limiti poiché il suo è uno spettacolo illusorio: il cielo passa dal rosa al verde; non ho tenuto conto però che certe nuvole sono diventate rosso vivo e fanno così, per contrasto, apparire verde un cielo che era rosa, d’una sfumatura, però, così pallida da non poter sostenere il valore superacuto della nuova tinta che peraltro non avevo neppure notato, essendo il passaggio dall’oro al rosso meno sensibile di quello dal rosa al verde. La notte si introduce di prepotenza.

C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, 7

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