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Élite sul tram

La madre sedeva in un angolo presso il finestrino, voltava più che poteva il dorso al popolo del tram e guardava nella strada; i marciapiedi erano affollati di una viva moltitudine di lavoratori di ogni specie che tornavano alle loro case; il freddo sole di febbraio illuminava le loro facce arrossate dal vento diaccio sotto le falde usate dei cappelli scoloriti e deformi, e le loro persone chiuse nei pastrani inverditi dal tempo; era un solicello bianco e senza calore che si diffondeva generosamente su tutti quegli stracci quasi avesse voluto benedirli; una dopo l’altra sfilavano le brillanti botteghe con quelle scritte dipinte in rosso, in bianco o in blu sulle vetrine; le insegne luminose sospese ai cornicioni, grigie e spente, parevano delle larve incenerite; il tram avanzava lentamente, multicolore, volgare e pieno come un carosello, fremeva, tintinnava… Ogni tanto, sotto gli occhi della madre, con un rapido movimento, il cofano lucido e oblungo di una automobile avanzava, si fermava quasi cercando un varco coi suoi grossi fanali, balzava avanti… ella vedeva dietro una lastra di vetro, fermo al suo posto, con le mani guantate posate sul volante, un autista tutto vestito di cuoio e poi, adagiato sopra i cuscini di pelle, soddisfattissimo, con l’occhio semiaperto abbassato sulla folla, un personaggio panciuto, oppure, avvolta nelle sue gonfie pellicce, qualche signora dal volto delicato e dipinto… Allora, senza volerlo, la madre sospirava: ella non avrebbe potuto mai passare tra la folla malvestita in un’imponente e poderosa macchina, i suoi anni erano svaniti, la sua giovinezza si era dileguata nella lucida automobile dei suoi sogni; a poco a poco le figure della sua invidia, quei personaggi effimeri passati via con la rapidità delle frecce nei loro carri rombanti si erano allontanati anche dalla sua fantasia e dalla sua speranza, rassegnata ella continuava il suo cammino, non senza una specie di disgustata dignità, in quel colorato carrozzone di ferro e di vetro.

A. Moravia, Gli indifferenti, 182

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Invidia, ammirazione: ingredienti dell’amore

L’invidia della vita dell’Altro che spesso opprime i soggetti nevrotici — l’invidia come l’amore non ha come oggetto una qualità dell’Altro, ma è pura “invidia della vita”‘ dell’Altro —, viene sostituita dalla contemplazione ammirata di quella vita. Per questo, giustamente, Freud notava come molti pazienti oscillano spesso dai sentimenti di amore a quelli di odio e viceversa. L’invidia e l’ammirazione sono infatti due sentimenti molto prossimi. Ma mentre nell’invidia l’invidioso vive come un dolore l’esistenza libera e vitale dell’Altro, nell’ammirazione questa stessa esistenza procura soddisfazione e accresce il desiderio.

M. Recalcati, Non è più come prima, 121

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Soli in una grande città

«Questa donna non mi dispiace… »
E ancora:
«Ha un bel corpo. Ci verrà a letto con me, prima poi… »
Capiva che lei non lo amava, ma che teneva a lui perché era la sola persona che andasse a trovarla, che le dimostrasse un qualche interesse. Era stato anche lui sufficientemente povero, sufficientemente abbandonato a se stesso da capire cosa può significare essere soli nel cuore di una grande città. Marie non aveva né famiglia,
né amici, né di certo un amante. Lavorava sodo tutto il giorno. Che strano… Un tempo aveva desiderato Édith perché era diversa da lui, perché la vita ricca, brillante, felice che lei conduceva lo esaltava, gli suscitava insieme invidia e orgoglio. A Marie, invece, si interessava perché era convinto che esistesse tra loro una sorta di fraternità, una somiglianza.

I. Némirovsky, La preda, parte 2, 9

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