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Perdonare

Il lavoro del perdono può diventare — come talvolta diventa — un’occasione per provare a fare un passo al di fuori delle sabbie mobili del narcisismo. L’orgoglio dell’Io tenderebbe a rendere impossibile questo lavoro, a respingere la violenza dell’offesa, ma proprio per questo nulla come l’esperienza del perdono — quando davvero avviene — mostra il limite della visione freudiana dell’amore come accecamento e come pura illusione immaginaria. L’Altro non è qui lo specchio buono che riflette le parti migliori di me stesso offrendo un rifornimento libidico che arricchisce il mio narcisismo, né è ridotto, come quando se ne va, a uno specchio infranto che non restituisce più nulla e che diviene oggetto d’odio e di ripulsa. L’innamoramento come “concupiscenza mentale”, secondo una definizione di Lacan, che ci lega alle virtù illusionistiche e persecutorie dello specchio, lascia il posto a un altro amore. Il lavoro del perdono non si nutre dell’infatuazione narcisistica della propria immagine ideale, ma viene dall’abisso del trauma dell’abbandono; non confronta il soggetto con l’immagine ideale dell’Altro, ma con la sua alterità più spigolosa, con il reale più reale dell’Altro. Se l’innamoramento si soddisfa del potenziamento dell’Io, il perdono conduce al di là dell’Io, ci accosta al mistero della totale ingovernabilità dell’Altro, del suo essere irriducibilmente straniero, eteros.

M. Recalcati, Non è più come prima, 100

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L’ho visto infelice

Del resto, è mio nemico. Lui ancora non lo sa. Ma io lo sento, lo vedo. So troppe cose. L’ho visto infelice; l’ho visto piangere… È una cosa che non si dimentica…

I. Némirovsky, La preda, parte 2, 8

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L’orgoglio di Jean-Luc

In lui c’era stato un riflesso di orgoglio, di quell’orgoglio così forte nel cuore di certi uomini che essi non possono liberarsene più di quanto possono liberarsi della loro carne o del loro sangue.

I. Némirovky, La preda, parte 2, 11

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L’addio della rosa

«Addio», ripeté.
Il fiore tossì. Ma non era perché fosse raffreddato.
«Sono stato uno sciocco», disse finalmente, «scusami, e cerca di essere felice».
Fu sorpreso dalla mancanza di rimproveri.
Ne rimase sconcertato, con la campana di vetro per aria. Non capiva quella calma dolcezza.
«Ma sì, ti voglio bene», disse il fiore, «e tu non l’hai saputo per colpa mia. Questo non ha importanza, ma sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice. Lascia perdere questa campana di vetro, non la voglio più.»
«Ma il vento…»
«Non sono così raffreddato. L’aria fresca della notte mi farà bene. Sono un fiore».
«Ma le bestie…»
«Devo pur sopportare qualche bruco se voglio conoscere le farfalle, sembra che siano così belle. Altrimenti, chi verrà a farmi visita? Tu sarai lontano e delle grosse bestie non ho paura. Ho i miei artigli».
E mostrava ingenuamente le sue quattro spine.
Poi continuò:
«Non indugiare così, è irritante. Hai deciso di partire e allora vattene».
Perché non voleva che lo vedesse piangere. Era un fiore così orgoglioso…

A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe, IX

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Soli in una grande città

«Questa donna non mi dispiace… »
E ancora:
«Ha un bel corpo. Ci verrà a letto con me, prima poi… »
Capiva che lei non lo amava, ma che teneva a lui perché era la sola persona che andasse a trovarla, che le dimostrasse un qualche interesse. Era stato anche lui sufficientemente povero, sufficientemente abbandonato a se stesso da capire cosa può significare essere soli nel cuore di una grande città. Marie non aveva né famiglia,
né amici, né di certo un amante. Lavorava sodo tutto il giorno. Che strano… Un tempo aveva desiderato Édith perché era diversa da lui, perché la vita ricca, brillante, felice che lei conduceva lo esaltava, gli suscitava insieme invidia e orgoglio. A Marie, invece, si interessava perché era convinto che esistesse tra loro una sorta di fraternità, una somiglianza.

I. Némirovsky, La preda, parte 2, 9

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Nero e divino sonno

Solo con Marie poteva tirare il fiato un momento, riposare, ritrovare la pigrizia divina conosciuta soltanto in un lontano passato, prima della giovinezza, prima dell’adolescenza… Ma, in fondo, l’aveva mai conosciuta? Gli pareva di essere stato sempre così, sempre teso, duro, diffidente, cupo. Con lei sola aveva accettato di essere il più debole, di dare più di quanto riceveva in cambio, solo tra le sue braccia aveva assaporato la pace, il nero e divino sonno in cui tace infine il desiderio, in cui si placa l’orgoglio tormentoso.

I. Némirovsky, La preda, parte 2, 16

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Jean-Luc a tu per tu con il cuore

Certo, non c’è niente di più terribile che essere ambizioso e sentire che il tempo passa e non si fanno progressi, non si riesce a far sloggiare gli altri dai posti che occupano. Ma non c’è niente di più amaro che constatare come sforzi anche sovrumani diano così poca felicità. Resta una sola consolazione: dire a se stessi che la felicità non esiste. Ma poi pensava a Marie, al suo corpo, al triste, esitante sorriso con cui accettava i suoi baci, e sentiva che lì stava la felicità, o perlomeno quella pace, quel nero e dolce sonno dell’anima che aveva perduto.
Si difendeva rabbiosamente: si ripeteva che essere schiavo dell’amore è indegno di un uomo, ma non poteva lottare contro tutta una parte del suo essere, affamata di tenerezza che gli si risvegliava dentro, esigeva il suo nutrimento, e di cui lui, con terrore, si sentiva diventare a sua volta preda. Innamorato… L’amore… Si vergognava anche di pensarle, quelle parole. La sua mente, il suo carattere, ciò che vi era in lui di più ardente, di più saldo, voleva conoscere, appassionarsi solo all’aspetto virile della vita, alla politica, al successo, agli intrighi, ma il suo cuore aveva un unico desiderio, la presenza di Marie; non tanto il suo amore, ma lei, la sua voce, il suo calore.

I. Némirovsky, La preda, parte 2, 12

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